lunedì 31 gennaio 2011

L'attualità di Marx.



Un operaio FIAT che lavora alla catena di montaggio percepisce mediamente un salario lordo mensile di 1750 euro. Il che equivale a dire che quell’operaio a fine anno si mette in tasca (si fa per dire) approssimativamente 22750 euro (tredicesima compresa). Stando ai dati sulla produttività FIAT, il nuovo totem padronale a cui sacrificare i diritti e salari, quello stesso operaio lavorando 40 ore a settimana nello stabilimento di Mirafiori in un anno costruisce l’equivalente di 24 Punto. Mettiamo ora il caso che al nostro operaio durante l’anno preso in esame non vengano fatte pagare le tasse (per par condicio con i padroni che lo fanno sistematicamente), che riesca a non spendere per (sopra)vivere nemmeno un centesimo del suo salario e che dopo tante rinunce decida di comprare le automobili che ha materialmente prodotto. Col suo salario annuale quante Punto riuscirà ad acquistare? Stando ai prezzi di listino attuali ognuna delle 24 macchine che lui ha prodotto vengono vendute a 11.900 euro (modello base), per cui a conti fatti non se ne potrebbe portare a casa nemmeno 2 (per la precisione 1,91). E le altre 22 che fine fanno? Ovviamente se le intasca il padrone perchè quello è il plusvalore che è riuscito ad estorcere a quell’operaio. Ora, sempre stando ai dati diffusi da Marchionne nello stabilimento polacco di Tichy, quello che questa estate veniva agitato come uno spauracchio su cui far convergere gli investimenti in caso di mancato accordo a Pomigliano, un operaio in un anno produce circa 98 Fiat-500. Rifacciamo dunque gli stessi conti visti prima tenendo però presente a quanto corrisponde il salario annuo lordo di un operaio polacco con una discreta anzianità (32523 Zloty = 8400 euro) e quant’è il prezzo di listino del modello base della Fiat-500 in Polonia (50500 Zloty = 13043 euro). Quindi a fine anno l’operaio polacco di auto se ne potrebbe comprare al massimo 0,5, mentre la quota di plusvalore estorta dal padrone sale a 96,5 automobili. Questa differenza del livello di sfruttamento (dietro cui ci sono ritmi più o meno intensi, orari più o meno lunghi, turni più o meno umani…) è il portato di decenni di lotte operaie, di scontro tra Capitale e Lavoro, ed è proprio questo il gap che Marchionne si propone di colmare. Al di la della falsa retorica efficientista e modernizzatrice l’orizzonte verso cui muove l’ad della FIAT è quello della completa restaurazione del modello ottocentesco delle relazioni industriali, e nel far questo il buon Marchionne si pone di fatto come testa di ponte per il resto del padronato italiano. Questo spiega anche il valore e la centralità non solo e non prettamente simbolica dello scontro in atto alla FIAT, e spiega pure l’importanza che assume in questo momento lo sciopero di ieri al di la delle sigle e delle appartenenze sindacali. Uno sciopero di categoria che dev’essere interpretato come un passaggio verso lo sciopero generale (e generalizzato).

PS prima che qualche purista del marxismo si risenta è ovvio che la definizione del concetto di plusvalore che abbiamo fornito è estremamente semplificata e rozza, del resto è anche vero che tutti gli esempi lo sono. Leggi tutto...

domenica 16 gennaio 2011

Seremos como el Che! Grazie compagni di Mirafiori.

Davanti a tutti i pericoli, davanti a tutte le minacce, le aggressioni, i blocchi, i sabotaggi, davanti a tutti i seminatori di discordia, davanti a tutti i poteri che cercano di frenarci, dobbiamo dimostrare, ancora una volta, la capacità del popolo di costruire la sua storia. Ernesto 'Che' Guevara (da Opere, v. 3, pt. 1)


Nonostante il ricatto di Marchionne, la campagna mediatica monocorde e l’appoggio bipartisan di PD e PDL GLI OPERAI DI MIRAFIORI HANNO VOTATO NO. Su 5139 votanti 2735 si sono espressi per il SI, 2325 per il NO, mentre le schede bianche o nulle sono state 79. Ma se a questi numeri sottraiamo il voto dei colletti bianchi, dei capi, degli ingegneri, dei cronometristi, insomma di chi campa sulle spalle di chi lavora, allora la situazione si ribalta. Perchè, dati alla mano, gli impiegati hanno votato compatti per il SI, 421 contro 20. Per cui se sottraiamo questi numeri a quelli complessivi si possono facilmente esplicitare i dati del voto operaio: 2305 NO e 2314 SI. Crediamo che questo sia un risultato enorme, soprattutto se si considerano le condizioni di ricatto in cui è maturato, un punto da cui ripartire. Per il padronato e per i suoi servi si tratta invece di una vittoria di Pirro, uno smacco. Perchè al di la delle dichiarazioni di facciata questi signori sanno bene che in una situazione del genere la fabbrica è difficilmente governabile. Perchè anche chi ha votato a favore dell’accordo lo ha fatto perchè costretto dalla paura e perchè il sindacalismo giallo ha dimostrato ancora una volta di non rappresentare o controllare quasi nessuno. L’imperatore Marchionne sarà quindi costretto a fare i conti con i ribelli, come nella cartografia dell’antica Roma negli uffici del Lingotto dopo Pomigliano compariranno leoni anche sopra Mirafiori, per indicare che quella fabbrica non è stata pacificata, che dentro ci sono operai che hanno lottato e che continueranno a farlo.Venceremos!

Dal sito www.ilmanifesto.it – di Rocco Di Michele.

Il risultato che il “fronte del no”, prima del voto, avrebbe sottoscritto senza problemi come una vittoria. Ma che dopo i quattro seggi del reparto montaggio – i “no” avevano prevalso in modo decisamente inatteso col 53% – suona come una beffa. Alla fine i “sì” hanno prevalso solo grazie al voto degli impiegati (421 favore, 20 contro), i meno toccati dall”accordo” nelle condizioni di lavoro.
La conclusione è giunta verso le sette di mattina, dopo una lunga notte in cui le operazioni sono andate decisamente a rilento anche a causa del “giallo” della sparizione di 58 schede al seggio numero 8, uno dei quattro del reparto montaggio. Poi si è visto che in realtà la commissione elettorale aveva sbagliato al momento della vidimazione delle schede, timbrandone appunto 58 in più. Questo dato cambia anche quello sull'affluenza: invece del 96,07% registrato inizialmente, in totale ha votato il 94,89 degli aventi diritto (5,154 lavoratori).
Dunque, come ha detto a caldo il segretario nazionale della Fiom, Giorgio Airaudo, «bisogna apprezzare il grande coraggio e l'onestà di una grandissima parte dei lavoratori di Mirafiori che hanno detto di no all'accordo. Gli operai delle linee di montaggio hanno detto di no. Di fatto sono stati decisivi gli impiegati che a Mirafiori sono in gran parte capi e struttura gerarchica».
Come e meglio di Pomigliano (dove i “no” avevano raggiunto un 36% impensabile all'inizio), il risultato non permette a Marchionne di prendere cappello e chiudere la fabbrica, ma gli consegna un corpo sociale che nella sua maggioranza “vera” (gli operai di linea, quelli che “fanno” la macchina) non è affatto piegato al suo volere e lo ha detto con forza.
Per poter dare una valutazione seria di questo risultato occore ricordare che il fronte dei sindacati pro-accordo (Fim Cisl, Uilm, Ugl, Fismic) aveva prima di ieri il 71% dei voti nelle Rsu, mentre il “fronte del no” (Fiom, in primo luogo, più Cobas e Usb) soltanto il 29. Si è quindi verificato un “quasi” perfetto rovesciamento degli equilibri interni a questa fabbrica, da molti anni dipinta come “rassegnata” e ormai estranea al conflitto sociale.
Se riguardiamo il film dei giorni scorsi, fino al voto, dobbiamo ricordare le centinaia di persone, uomini e donne spesso in lacrime, che spiegavano alle telecamere che avrebbero detto “sì” solo perché messi di fronte a un ricatto in piena regola, un autentico “o la borsa o la vita”. Dobbiamo quindi sapere tutti – Marchionne, i “sindacati complici”, l'inguardabile classe politica di questo paese – che persino in questo microcosmo di 5.400 persone messe con le spalle al muro non trova “consenso” autentico uno imbarbarimento delle vite e un annullamento dei diritti che vuol riportare il lavoro nelle condizioni degli inizi dell'800.
Di fatto dunque, e non per paradosso, si tratta del risultato peggiore possibile per i sostenitori di questa “modernizzazione” a rovescio: dovete fare quel che avete detto, ma sapendo di avere la maggioranza contro. Qui, nel paese del bunga-bunga e dell'affidarsi a qualche santo.
Da questo dato prende una spinta decisiva anche tutto il movimento che va preparando lo sciopero generale dei metalmeccanici del 28 gennaio: “vincere è possibile”, come aveva spiegato Maurizio Landini prima del voto. Bisogna smetterla di farsi inchiodare dalla paura e dal pessimismo sistematico. In fondo, ci sono già riusciti a Tunisi...

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mercoledì 12 gennaio 2011

L'aiuto di Cuba ad Haiti.


Il terremoto del 12 gennaio 2010 ha ucciso 250000 haitiani. Un uragano ha colpito la popolazione il 5 novembre lasciando almeno 1,5 milioni di persone senza un tetto sulle loro teste. Il colera è arrivato nella metà di Ottobre infettando oltre 80000 persone e uccidendone almeno 2100. Gli esperti dicono che in sei mesi il colera infetterà mezzo milione di persone.
I medici cubani sono in prima linea nel curare le vittime del terremoto inoltre, fino ad ora, si sono presi cura di più del 40% degli ammalati di colera. Sono infatti più di 900 i dottori e gli operatori sanitari impiegati nei 36 centri per la cura del colera. Un portavoce delle Nazioni Unite, Niguel Fisher, ha comunicato che gli operatori cubani lavorano in quasi tutti questi centri.
Hanno salvato delle vite. Complessivamente il 2,3% di 69.776 persone sono morte, ma tra le 25521 curate dai medici cubani la percentuale scende al di sotto dell’1%. Il medico argentino Emiliano Marisca, specializzatosi a Cuba e ora volontario ad Haiti, attribuisce questo successo alla fiducia che i medici cubani hanno guadagnato dopo 12 anni di presenza ad Haiti, dove si sono avventurati anche nelle località più remote per curare le persone.
[...] Il silenzio dei media corporativi fa innervosire Angel Guerra Cabrera, giornalista del giornale messicano La jornada: “Ho perso il conto di tutte le interviste e i report con [...] ong dentro e fuori di Haiti nelle quali la parte dell’aiuto cubano viene completamente dimenticata”.
Tralasciando il colera la popolazione haitiani sta vivendo nelle più atroci delle condizioni. Solo il 2% dei detriti lasciati dal terremoto sono stati rimossi da Port au Prince. La maggior parte degli haitiani, senza lavoro e senza educazione formale vive nella povertà estrema. La speranza innalzata nella popolazione dopo la vittoria elettorale del 2000 del Presidente Jean-Bertrand Aristide fu cancellata dal colpo di stato appoggiato dagli Stati Uniti solo quattro anni più tardi.
[...] Degli oltre 5.3 miliardi di dollari, promessi per la ricostruzione dalle nazioni più ricche del mondo, soltanto il 2% di essi è stato consegnato. [...] Leggi tutto...

domenica 2 gennaio 2011

VERSO IL VI CONGRESSO/COSTRUENDO IL SOCIALISMO DEL TERZO MILLENNIO..


L’anno che è appena cominciato segna il 50° anniversario della nostra Associazione nata nelle principali città italiane nei giorni in cui una forza mercenaria di 1.500 uomini finanziata, addestrata e armata dagli Stati Uniti tentò di invadere Cuba attraverso la Baia dei Porci per rovesciare la Rivoluzione. In sole 66 ore l’unità del popolo cubano respinse gli invasori, infliggendo agli Stati Uniti la prima sconfitta militare in America Latina.
ll nuovo anno vedrà qui da noi consolidarsi una logica liberista e autoritaria messa in campo da un manager filo-americano spalleggiato da sindacati venduti. La classe politica di sinistra è incapace di intravedere la deriva che si sta prospettando, pertanto ognuno di noi dovrebbe sentirsi chiamato in causa contro questo vile ricatto perpetrato ora sui Compagni delle Fiat, ma inesorabilmente orientato a investire l’intero mondo del Lavoro italiano. Se non ritroviamo subito unità e senso della lotta ci verranno rapidamente cancellati diritti faticosamente acquisiti.
Anche per Cuba il 2011 sarà un anno cruciale, è stato infatti convocato per Aprile il VI congresso del Partito Comunista Cubano che vedrà un inevitabile riassetto socio-economico e segnerà una svolta decisiva nella storia della Revolucion. A differenza che nei paesi capitalisti però a Cuba cambiare non significa tornare indietro e siamo certi che la “battaglia economica” che verrà intrapresa mirerà a preservare e sostenere un modello di società diversa.


Per approfondire l’argomento vi inviamo l’interessante articolo di Fabrizio Casari tratto da www.altrenotizie.org

ll VI Congresso del Partito Comunista di Cuba, convocato per il prossimo Aprile, non sarà un congresso di routine.
Segnerà, in qualche modo, una decisa svolta nella storia della Rivoluzione cubana, che ha scelto di non rimanere ferma davanti all’inevitabile riassetto socio-economico, per salvaguardare la continuità del processo politico. E, come sempre, diversamente da quanto afferma la vulgata generale circa una scarsa democrazia in voga sull’isola, l’appuntamento congressuale stà pervadendo in lungo e largo il Paese, non si tratta certo una discussione tra le elites. Prima si sono svolti seminari nazionali con dirigenti e specialisti dei temi economici, quindi seminari in tutti i municipi dell’isola per preparare i quadri che parteciperanno alle riunioni con le comunità popolari. Dal 1° Dicembre fino al 28 febbraio, la discussione stà attraversando tutta la popolazione per poi raccogliere, entro l’11 marzo, proposte, emendamenti e opinioni sulla base delle quali si procederà alla stipula del documento congressuale. La discussione congressuale entrerà nel merito dei provvedimenti in qualche modo già annunciati. L’attualizzazione del modello economico e le sue inevitabili ripercussioni su quello sociale, saranno affrontate con una discussione le cui linee saranno indicate dal documento programmatico.
Nell’annunciare il Congresso, il Presidente Raul Castro ha indicato nella “ battaglia economica” il centro nevralgico della discussione, perché da essa dipendono sostenibilità e preservazione del sistema sociale cubano.
I media internazionali stampati su carta dell’impero, specializzati nel non voler riconoscere l’isola e le sue ragioni, hanno scritto a profusione su improbabili mutazioni genetiche del socialismo cubano. Cuba, infatti, accusata fino a ieri di essere inguaribilmente socialista, da qualche giorno è accusata di non esserlo più abbastanza. Le annunciate, profonde modifiche dell’organizzazione del lavoro sull’isola, hanno avuto, come effetto secondario, quello di spiazzare gli autocelebrati “esperti” che, dai bar di Little Habana a Miami, scrivono di Cuba.
Almeno nelle critiche c’è un tratto di coerenza: rimproverata per non aver mai aderito alla moda imperante del modello unico, l’isola subisce ora le reprimende per voler continuare a perseguire un unico modello. I suoi detrattori – almeno quelli non ingaggiati armi e bagagli dalla mafia di Miami – la accusavano fino a ieri come minimo di insostenibilità del modello, prodotto inevitabile dell’inapplicabilità del sistema. In sostanza, le colonne dei giornali che fino a ieri spiegavano l’inutilità di un’economia sussidiata dall’estero e sussidiante verso l’interno, oggi grondano di nostalgia per i sussidi.
Tra le tante obiezioni dei critici a tempo indeterminato, una delle più frequenti si riferiva all’insopportabilità sistemica della piena occupazione e del livellamento salariale, considerati due tra gli elementi da imputare all’utopia. Seppure simbolici di una concezione egualitaria e socialista della società, proprio in ragione della loro insostenibilità essi sarebbero luogo privilegiato della crisi della struttura economica del paese e, con ciò, primi nemici proprio delle aspirazioni di partenza.
Ponendo ipocritamente Cuba in alternativa a Cina e Vietnam, la sovrapposizione del sistema socialista e del modello cubano era utilizzata strumentalmente per declamare ragione e conseguenza della crisi del progetto di società scelto dall’isola caraibica. Confondendo fino ad ora i due termini (modello e sistema) e ciò che essi significano, i critici di cui sopra dimostrano di capire poco del sistema, del modello e di Cuba stessa.
La riforma del mercato del lavoro cubano, pur ripetutamente annunciata da ormai qualche anno, è certamente un fatto nuovo; apre scenari difficili da prevedere in tutta la loro portata e rompe schemi consolidati, cari all’ortodossia di nemici e amici. Ma appare, in buona sostanza, come un tentativo necessario di far fronte ad una crisi economica che va aggredita. L’intenzione evidente è semplice: far funzionare quello che non funziona. Inefficienze e disorganizzazione pesano troppo su un’economia che già patisce un blocco economico di quasi cinquant’anni, inumano ed anacronistico, che ha provocato oltre 751 miliardi di dollari di danni diretti e molti di più indiretti.
L’impossibilità di realizzare affari con Cuba, se si vuole farlo anche con gli Stati Uniti, produce una contorsione ulteriore della già difficile partita dell’import-export tra l’isola e i fornitori di prodotti. Le importazioni di Cuba (che non gode di linee di credito a medio e lungo termine garantite dagli organismi finanziari internazionali) sono pagate subito e a caro prezzo, mentre le esportazioni dei suoi prodotti, sulla base dei prezzi internazionalmente imposti dal Wto, risentono sia del livellamento verso il basso del valore di scambio dei prodotti, che della diminuzione della produzione nazionale, risultato di un’organizzazione interna del mercato del lavoro ormai insufficiente e superata.
Questo è uno dei punti chiave del problema. Con i nuovi provvedimenti, i privati, organizzati in cooperative, potranno lavorare nell’edilizia, nella falegnameria, nei trasporti nei servizi in generale; insomma potranno fare tutto quello che già – illegalmente e affrontando il rischio di multe – fanno. Si trasformerà insomma in diritto ciò che è già presente in fatto, eliminando sostanzialmente il mercato nero dei prodotti e delle prestazioni, che pure tanto danno reca alla già fragile economia e che tanta diseguaglianza intrinseca produce proprio nella patria dell’egualitarismo.
E se con la riforma del sistema valutario (nel 1994, quando fu legalizzato il possesso dei dollari) si mise una pietra tombale sul mercato nero della valuta, ora si spera che la legalizzazione di attività lavorative esercitate da privati riduca al minimo lo svolgimento delle stesse attività in nero. L’obiettivo finale è che tutto questo contribuisca a rendere minore la distanza tra la domanda di beni e servizi della popolazione e la possibilità dello Stato di soddisfarla. Sprechi, inefficienze e abusi possono essere fortemente ridotti proprio da politiche economiche premianti e calibrate sulle necessità del consumo interno. In particolare il trasporto pubblico e la manutenzione degli edifici, due tra i maggiori problemi dei cubani, possono ricevere una soluzione da queste aperture. Se per esempio si estendesse anche alle auto di recente fabbricazione e ai microbus quello che è già permesso da alcuni anni per le auto d’epoca e cioè l’utilizzo della propria vettura come mezzo adibito al trasporto pubblico, potrebbe generare impiego e ridurre le file.
E’ chiaro che cambiare molto non sarà semplice né rapido. Milioni di cubani andranno formati ed ulteriori ampliamenti della presenza internazionale negli investimenti sull’isola saranno inevitabili. Il welfare stesso – fiore all’occhiello del socialismo cubano – dovrà essere parzialmente finanziato dall’aumento delle entrate tributarie derivante dal lavoro privato, giacché il proseguimento del livello (altissimo) di assistenza non può poggiare solo sulla fiscalità generale che, unica al mondo ha nelle entrate una dimensione ridicola rispetto alle uscite. Cuba ha bisogno di riassestare in profondità l’organizzazione del lavoro e deve farlo incamminandosi verso un’economia mista (pubblica e privata) che generi il gettito fiscale necessario anche per la copertura del welfare. Verranno quindi concesse licenze per lo svolgimento di attività private destinate ai servizi e ogni impresa che assumerà lavoratori dovrà pagare la quota stabilita di salario, assistenza e previdenza. I profitti verranno tassati per aumentare le entrate statali. A questo si aggiunge la necessità di riprogrammare il cosa e il quanto lo Stato deve produrre e, quindi, la forza lavoro che ha bisogno d’impiegare. Perché in nessun manuale di socialismo é scritto che il lavoro artigianale non possa essere privato. Che un barbiere sia un impiegato pubblico, invece che un artigiano privato, non assegna patenti di autenticità socialista o, viceversa, ne riduce. Affidare ai privati la produzione di servizi destinati al consumo interno appare invece come un utile passo verso una modernizzazione del paese in un contesto di rinnovamento senza abiure.
Sarà un cammino faticoso, doloroso, irto di ostacoli, suscettibile di sollecitazioni ora difficili da prevedere e anche di ulteriori cambi di passo in corsa. L’istruzione, la salute, la difesa e la grande produzione industriale rimarranno nelle mani dello Stato, ma andrà formata una cultura del lavoro che non preveda l’impiego “a prescindere” dalle mansioni effettivamente svolte e che le stesse siano indifferenti alla domanda di consumo interno. Per questo Cuba è oggi obbligata a ristabilire un principio: il valore del lavoro dev’essere riflesso in quello del salario.
Ed è proprio la chiara intenzione di modernizzare e adeguare, invece che demolire, l’aspetto che scatena il sarcasmo e il livore scribacchino dei columnist che non trovano pace con Cuba e nemmeno con se stessi. Avrebbero preferito che Cuba dichiarasse la fine del suo sistema, l’insostenibilità del suo modello, il venir meno della sua utopia; tra le tante, l’unica ad aver avuto applicazione concreta. Si aspettavano, insomma, una resa senza condizioni, l’abdicazione dei princìpi prima ancora che l’azzeramento di un sistema. Sono delusi, da ciò dipende l’acrimonia.
Cuba ha scelto di rinnovarsi invece che di restare sotto l’albero con le mani in mano. Ha scelto di cambiare quello che non funziona proprio per non essere costretta a cambiare tutto. Ha scelto, insomma, di accettare la sfida solitaria. Una sfida che prevede l’adeguamento del suo modello economico alle necessità interne e alla congiuntura internazionale e che offre un’apertura di credito verso la capacità di rendere il modello più efficiente, è segno di profonda fiducia nello stesso.
Il socialismo cubano, che potrebbe essere definito un combinato disposto di giustizia sociale e indipendenza nazionale, ha bisogno di essere in linea con questi due elementi proprio per rilanciare il suo modello; perché il miglioramento dell’economia è un passaggio inevitabile per il mantenimento del modello e perché, salvare il sistema, passa proprio dal riuscire a riformare il modello.
Riformare, sburocratizzare, modernizzare: niente di tutto ciò significa tornare indietro. Al contrario, modernizzare e sbloccare, innovare e riformare, sono propedeutici al perdurare. Per tutto quello che ha significato e significa Cuba, per tutto quello che significa la presenza di un modello di società diversa, vale quindi la pena provarci. Cambiare non significa tornare indietro. L’isola socialista si vestirà elegante per questo appuntamento con la terza fase della sua storia, mentre a Miami continueranno a sognare un’impossibile restaurazione. Ma moriranno di rancore e di nostalgia guardando la baia dell’Avana nelle notti prive di foschia.E questo è il resto.
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