domenica 25 novembre 2018

Comandando


Fidel non ha bisogno di essere ricordato, viene replicato da noi cubani nel modo di affrontare quotidianamente le piccole e grandi prove umane, essere virtuosi significa rinnovare ogni giorno la Rivoluzione, la sua trascendenza è di vitale importanza; l'uomo e il capo comandano ancora, nel tempo, nonostante gli annuari.
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venerdì 2 novembre 2018

Cuba, il mondo contro il blocco USA di Fabrizio Casari

Care/i compagne/i
di seguito l'inizio dell'articolo di Fabriazio Casari pubblicato sul sito ALTRENOTIZIE sull'ennesima condanna da parte dell'ONU del blocco economico a cui gli USA sottopongono Cuba da oltre sessant'anni. Buona lettura.
Hasta siempre!
Italia-Cuba Senigallia

Cuba, il mondo contro il blocco USA di Fabrizio Casari

Per la ventisettesima volta, ed ogni volta in forma più netta, la comunità internazionale, rappresentata nell’Organizzazione delle Nazioni Unite, ha condannato il blocco politico, commerciale, diplomatico e finanziario con il quale, da oltre sessanta anni, gli Stati Uniti martirizzano il popolo cubano. La condanna del mondo intero ha indossato le vesti dell’indiscutibile: centottantanove paesi hanno infatti votato a favore della mozione presentata da Cuba che chiedeva l’immediata revoca dell’embargo statunitense. Gli unici due voti a favore degli Stati Uniti sono stati quello di Israele e degli stessi Stati Uniti, uniti in un sentiment ideale che da Guantanamo a Gaza esprime con chiarezza il senso dei due paesi per i diritti umani.
Diversamente dalle 26 precedenti occasioni, benché l’Amministrazione Trump ritenga le Nazioni Unite un luogo inutile quando non dannoso, gli USA hanno deciso di tentare di uscire dall’angolo nel quale sanno di trovarsi ed hanno proposto otto emendamenti. L’intento evidente era di trovare un pertugio, un canale, per stretto che fosse, che portasse dalla loro parte almeno un paese degno di essere indicato come significativo nella comunità internazionale. Operazione fallita: nemmeno i suoi alleati latinoamericani hanno seguito Washington, anche all’obbedienza c’è un limite.

l'articolo completo su http://www.altrenotizie.org/primo-piano/8205-cuba-il-mondo-contro-il-blocco-usa.html Leggi tutto...

giovedì 18 ottobre 2018

“Il neoliberismo produce miseria e povertà. E’ ora di nazionalizzare”. Intervista a Luciano Vasapollo


Da CONTROPIANO.org
Intervista de l’AntiDiplomatico al direttore scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali del sindacato USB in vista della manifestazione del 20 ottobre a Roma per le nazionalizzazioni
Finalmente in Italia si torna a discutere di nazionalizzazioni. A determinare il ritorno d’attualità di questo argomento cruciale per l’economia di una nazione hanno sicuramente contribuito le polemiche suscitate dal tragico crollo del Ponte Morandi a Genova. Evento che ha palesato il fallimento totale della privatizzazione delle autostrade italiane. Assurte a simbolo del fallimento di una strategia politica ultra-ventennale.
È datato 1993 infatti, all’epoca c’era il governo Amato, l’avvio della strategia che ha portato lo Stato a ritirarsi dall’economia. In ossequio ai dettami del neoliberismo. Dove tutto deve essere lasciato alla gestione della cosiddetta mano invisibile del mercato. Il fallimento di una siffatta teoria economica è sotto gli occhi di tutti. Con un’Italia in piena devastazione economica e sociale.
Di un tema centrale e ineludibile, quale le nazionalizzazioni, per qualunque forza politica voglia risollevare le sorti del paese e le condizioni di vita della classe operaia e delle larghe messe popolari abbiamo deciso di discuterne con Luciano Vasapollo, direttore scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali del sindacato USB; professore di Analisi Dati di Economia Applicata alla «Sapienza» Università di Roma, Delegato del Rettore per le Relazioni Internazionali con i Paesi dell’America Latina e dei Caraibi; e professore all’Università de La Habana (Cuba) e all’Università «Hermanos Saíz Montes de Oca» di Pinar del Río (Cuba); autore del libro “Pigs. La vendetta dei maiali”, insieme a J.Ariolla, R.Martufi – che segue Pigs. Il Risveglio dei maiali –  in cui si approfondisce la discussione sulla necessità della rottura della gabbia dell’Unione Europea e si avanza una proposta politica che allude ad un area alternativa Euro/Mediterranea sganciata dai dispositivi di dominio, rapina e sudditanza della borghesia continentale europea.
Professore, la parola nazionalizzazione è tornata al centro del dibattito pubblico dopo che per un lungo periodo questa è sembrata una bestemmia. Quali obiettivi si propongono quelle forze politiche che daranno vita alla manifestazione incentrata proprio sulle nazionalizzazioni il prossimo 20 di ottobre a Roma?
Al centro degli obiettivi di questo appuntamento di mobilitazione c’è il rilancio della parola d’ordine – un vero e proprio programma di medio periodo – della Nazionalizzazione dei settori strategici della produzione.
C’è voluta la catastrofe di questa estate del ponte Morandi a Genova per riportare all’ordine del giorno – del dibattito pubblico e dell’agenda politica – l’autentico disastro sociale prodotto dalla lunga stagione di privatizzazioni, dismissioni, esternalizzazioni e depauperamento del patrimonio industriale ed infrastrutturale del nostro paese. Una sequenza che ha pesantemente segnato il corso economico del capitalismo italiano almeno negli ultimi 25 anni provocando non solo una deregolamentazione del lavoro e dei diritti ma anche un peggioramento della quantità e della qualità dell’offerta dei servizi pubblici ed essenziali.
Infatti – volendo periodizzare questa fase di ristrutturazione del Sistema/Italia – possiamo datare dal periodo di vigenza del governo Amato (1993) l’avvio della lunga serie di privatizzazioni che hanno modificato il volto e la struttura del capitalismo tricolore unitamente al complesso delle relazioni produttive, economiche e normative dell’Azienda/Italia.
Abbiamo vissuto una intera fase della storia economica in cui soggetti finanziari famigerati come Société Générale, Rothschild, Crédit Suisse, JP Morgan, Goldman Sachs (ossia la cupola dei poteri forti del capitalismo internazionale) hanno fatto ‘il bello ed il cattivo tempo’ cannibalizzando la struttura industriale italiana, dettando le condizioni della sua svendita, le conseguenti politiche anti-operaie da applicare verso i lavoratori interessati da questi processi ed imponendo la linea di condotta da seguire la quale – seppur con approcci differenziati – è stata supinamente accettata ed applicata supinamente dal susseguirsi dei vari esecutivi di governo nel corso di questi decenni.
Del resto il consumarsi di alcune vicende simbolo degli ultimi anni – Alitalia, Ferrovie, Sip/Telecom ed Ilva in primis – hanno riproposto uno scenario economico in cui vige, unicamente, la logica del profitto a tutti i costi, l’abbandono di ogni parvenza di clausola sociale, l’assenza di una qualsivoglia forma di programmazione con una idea di sviluppo generale utile per la collettività ed il trionfo del feroce totem ultraliberista della “centralità del mercato”.
Il tutto è avvenuto in una congiuntura politica dove i processi di centralizzazione e concentrazione dei settori più forti della borghesia continentale (annidati attorno al nocciolo duro dell’Unione Europea) hanno favorito e spinto le dinamiche di spoliazione, ridimensionamento e declassamento dell’economia del nostro paese in direzione di una generale svalorizzazione della forza lavoro e della sua qualità salariale, normativa e professionale. Un processo scientificamente pianificato che è stato funzionale alla nuova divisione del lavoro e delle sue filiere lungo tutta la Eurozona in un contesto oggettivo di accelerazione di tutti i fattori della competizione internazionale tra blocchi e potenze globali.
Come siamo arrivati a questo punto?
Il conflitto sociale e la forza del movimento operaio crescevano e quando l’ammortizzatore dello Stato sociale e delle nazionalizzazioni non sono più serviti, il grande capitale nazionale e transnazionale, e quindi anche gli Stati Uniti, hanno giocato in Italia l’arma del terrorismo e del fascismo. Ricordiamo la stagione delle stragi impunite, i tentativi di colpo di Stato. Non c’è un capitalismo buono e uno cattivo. Il capitalismo usa i suoi strumenti in funzione dei rapporti di forza. Quando i rapporti di forza erano positivi per i lavoratori il capitale ha dovuto concedere le nazionalizzazioni e lo Stato sociale. Una volta sconfitto il movimento operaio ha operato una ‘normalizzazione’ cancellando tutte le conquiste strappate attraverso decenni di lotta.
In questo scenario quale è stato il ruolo dell’Unione Europea, una costruzione basata sul neoliberismo?
Il ruolo dell’Unione Europea è quello definito dall’ortodossia neoliberale. L’UE non è nata come luogo dei popoli o per assicurare ai popoli una maggiore democrazia. Questa sta funzionando esattamente per come è stata concepita. La struttura di quella che possiamo definire la gabbia europea è fondata sui trattati che ne rappresentano l’architrave e l’essenza stessa, a partire da quelli di Roma del ’57 fino ad arrivare al famigerato “Fiscal Compact”. Un architrave, quello dei trattati, che ha prodotto un sistema di governo post-democratico negli stati membri con la relativa espulsione della sovranità democratica e popolare, la distruzione dello stato sociale, la privatizzazione dei servizi pubblici, la precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro, distruggendo quel diritto al lavoro che crea una “vita degna per sé e per la propria famiglia”, come recitato dalla nostra stessa Costituzione. I trattati, infatti, sono completamente incompatibili con essa, soprattutto con i principi fondamentali che garantiscono stato sociale, salute, tutela dell’ambiente e diritto al lavoro. Da qui si percepisce la grande volontà posta in campo negli ultimi anni per cambiarla, per fondarla sulla libera concorrenza di mercato, anche se in realtà è già stata minata alla radice con la famosa introduzione del pareggio di bilancio, articolo 81. L’attuale formulazione dell’articolo, difatti, impedisce di realizzare politiche economiche espansive, rivolte al bene pubblico, al sociale, fuori dall’egida del profitto e del pareggio di bilancio; cosa di cui incominciamo a vedere le conseguenze con la caduta del ponte Morandi a Genova. Il testo affronta la problematica dell’”Europa a due velocità”, “centro- periferia” che sta ridefinendo i rapporti tra i paesi del centro a guida franco-tedesca e quelli del sud, relegando quest’ultimi ad essere in ultima istanza fornitori di manodopera e servizi perlopiù turistici e di ristorazione.
Una situazione che ha visto i paesi PIGS particolarmente penalizzati.
I paesi cosiddetti PIGS sono stati massacrati attraverso la logica del credito-debito che rafforza la sudditanza dei paesi periferici nei confronti dei paesi del centro. La vicenda greca in tal senso è paradigmatica.
Professore, affrontiamo un tema caldo e spesso agitato come uno spauracchio: l’Italia dovrebbe uscire dall’euro?
È utile ribadire che la questione dell’uscita dall’euro e dall’Unione Europea non è da noi concepita in chiave nazionalista, cioè di generica, impropria, inadeguata e dannosa sovranità nazionale ma ha una dimensione immediatamente di classe perché è un passaggio, se storicamente affrontato da una soggettività politica consapevole e capace di svolgervi una funzione, in grado di porre le basi per una inversione dei rapporti di forza lavoro-capitale nel polo imperialista europeo.
La creazione dell’euro è stata accompagnata dall’intensificazione del mercato unico e dalla divisione europea del lavoro, andando verso una formazione sociale su scala europea – attualmente, un quarto del PIL dei paesi dell’Europolo viene valutata per mezzo del mercato comune e la specializzazione settoriale intraeuropea si trova in una fase di deindustrializzazione accelerata della periferia dell’area. Nonostante questo processo non sia ancora stato completato, la frammentazione monetaria dell’Euro-zona è una possibilità reale, ciò che non lo è, è tornare a monete nazionali che lungi dal rappresentare una sovranità (monetaria) recuperata, non potrebbero non essere che simboli monetari di territori politicamente ed economicamente frammentati e dipendenti dall’area di influenza del capitale europeo. Se i paesi della periferia europea vogliono riprendere il controllo sull’attività produttiva, lo potranno fare solo in modo congiunto e mediante un processo di rottura con il modello delle finanze private e con lo spazio monetario asimmetrico di adesso. L’uscita dall’euro è una opzione politica più che economica e può essere un passo verso la soluzione dei gravi squilibri strutturali delle economie periferiche, che non sono squilibri finanziari, ma produttivi: una base industriale in declino, uno spreco enorme di forza lavoro, una concentrazione scandalosa della ricchezza e del patrimonio. Però come sfida politica generale, supera il grado di autonomia decisionale di qualsiasi paese danneggiato dalla politica che soggiace al patto originario dell’euro.
Uscire dall’euro proponendo una nuova moneta per Paesi con strutture produttive più o meno simili sarebbe l’unica alternativa realizzabile, che permetterebbe sia di mantenere un margine di negoziazione con le istituzioni comunitarie e con la Banca Centrale Europea sia di creare un nuovo blocco politico istituzionale capace di realizzare un modello di accumulazione favorevole ai lavoratori.
Quindi c’è vita oltre l’euro e l’Unione Europea…
Riveste, a questo proposito, particolare importanza – per i suoi auspicabili risvolti politico/pratici nei confronti delle lotte popolari e dei movimenti sociali – il Programma di Alternativa di sistema: uscire dalla UE, dall’Euro, costruire l’Area Euromediterranea, recentemente adottato dalla Piattaforma Sociale Eurostop, il quale individua nelle lotte per imporre la Nazionalizzazione dei settori strategici dell’economia un punto programmatico serio e costitutivo per quell’indispensabile accumulo delle forze e strutturazione di un nuovo movimento operaio e popolare in grado di imporre un’altra economia ed una nuova configurazione geo/politica dei popoli del Mediterraneo.
Non bisogna aver paura d’immaginare di valicare il limite dell’esistente. Quindi la necessità di costruire l’Area Euromediterranea per smontare la paura del salto nel buio che quotidianamente ci viene propinato a reti unificate da un’informazione in malafede e spesso ignorante. Per contrastare, inoltre, ed invertire nonché scalzare le presenti e nuove mire neo-coloniali che producono migliaia e migliaia di immigrati ed emigrati, affermando un progetto nel quale l’autodeterminazione dei popoli è la base per un’alleanza internazionalista che non ricada o scambi l’internazionalismo nel globalismo borghese, fatto di genti apolidi che se la prendono sistematicamente con il loro vicino più povero come causa di tutti mali.
Per chiudere vorrei chiederle un giudizio sull’attuale governo che ha compiuto alcuni timidi passi in discontinuità con il passato.
Il nostro governo è molto contraddittorio. Dal punto di vista sociale si propongono le nazionalizzazioni, anche di settori strategici e di società come Alitalia. Noi sosteniamo queste nazionalizzazioni. Per questo motivo sabato 20 saremo in piazza per incalzare il governo su questo tema strategico per l’economia italiana. A noi non interessa nulla se siano Di Maio o il Movimento 5 Stelle a proporre le nazionalizzazioni. Le esigiamo come misura necessaria a risollevare le sorti economiche dell’Italia e della popolazione piegata da oltre vent’anni di neoliberismo sfrenato. Così come siamo favorevoli allo sforamento dell’assurdo vincolo di bilancio imposto da Bruxelles per implementare il reddito di cittadinanza ed abolire la legge Fornero. Vigileremo affinché il governo operi per migliorare le condizioni di vita della classe lavoratrice e della popolazione italiana. Dall’altra parte invece ci sono ministri e forze di governo eversive, non solo sovversive. Che non hanno a cuore le sorti del paese né buone relazioni internazionali. In primis la Lega con le sue politiche razziste e xenofobe.
Altro esempio è costituito dalla recente partecipazione del ministro dell’Economia e delle Finanze, Giovanni Tria, a una riunione con altri 14 ministri delle finanze di diversi paesi satelliti di Washington convocata dal Segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Steven Terner Mnuchin, per discutere del Venezuela. Un’ingerenza inaccettabile negli affari interni di Caracas. Giovanni Tria, indicato come parte di quell’area ‘grigia’ del governo cosiddetto giallo-verde, che risponde direttamente al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, altro non ha fatto che schierare l’Italia contro un paese sovrano che tra mille difficoltà cerca di superare una difficile congiuntura economica, e vincere una guerra economica senza quartiere scatenata da quella che è, al momento, la prima potenza mondiale. Confermando che il governo di Roma è quantomeno schiacciato sulle posizioni guerrafondaie di Donald Trump.
Fatemi dire, infine, che questo paese non ha opposizione. Perché il PD è il primo colpevole di tutte le leggi liberticide, le privatizzazioni e le concessioni alle multinazionali. Pensiamo alle cosiddette liberalizzazioni promosse da Pierluigi Bersani. I criminali bombardamenti effettuati contro la Serbia quando a capo del governo italiano c’era Massimo D’Alema. Questi dirigenti, che hanno svenduto e distrutto la sinistra italiana, hanno spalancato le porte del paese alla Troika. Non hanno alcun legame con la classe operaia e lavoratrice, perché rispondono solamente agli interessi di determinati settori del capitale internazionale.
Questo è un paese che attualmente è senza governo ed opposizione. L’unica opposizione è quella delle strade, l’opposizione è quella dei pochissimi mass-media liberi e indipendenti, e quella di sindacati come l’USB, dei movimenti sociali e di forze come Potere al Popolo che cercano di organizzarsi e darsi una prospettiva. Una prospettiva che insieme a Eurostop e altri movimenti indichiamo nell’uscita da Euro e NATO, per la creazione di un’ALBA Euromediterranea, che abbia come modello l’esperienza latinoamericana. Quindi nazionalizzazioni, sviluppo autodeterminato e democrazia economica a carattere socialista.
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venerdì 14 settembre 2018

La lezione cilena 45 anni dopo.


 di Fabrizio Casari – da altrenotizie.org  
Quarantacinque anni fa, i caccia militari dei traditori delle Forze Armate cilene bombardavano la Moneda, il palazzo presidenziale, con l’ordine di uccidere il Presidente Salvador Allende, medico e leader socialista democraticamente eletto alla guida della coalizione Unidad Popular.
Nasceva quel giorno il regno del terrore, con torture, uccisioni, e detenzioni di massa. Lo stadio di Santiago del Cile pieno di detenuti politici, la DINA,  famigerata polizia politica o Villa Grimaldi, luogo delle peggiori torture, divennero le icone di una dittatura sanguinaria del macellaio dagli occhiali neri e la divisa inspiegabilmente dotata di fregi militari mai ottenuti sul campo.
L’11 Settembre del 1973, nel sangue e nel tradimento delle sue forze armate (e di alcuni partiti della destra come la Democrazia Cristiana che svolsero il ruolo di fronte interno del golpe made in USA), finiva l’esperimento di un socialismo che raggiungeva il potere non con l’insurrezione, fase finale tipica di un processo rivoluzionario, ma con il cammino elettorale, proprio del disegno politico democratico-liberale.
Il governo di Unidad Popular aveva ottenuto importanti successi sul piano sociale ed altrettanto decisa era stata la scommessa sul futuro del suo Presidente. Allende infatti aveva scelto di marcare la storia del Cile nel segno della giustizia sociale e dell’edificazione del socialismo: nazionalizzò le miniere di rame (di cui il Cile era primo produttore ed esportatore al mondo) e volle procedere con un piano generale di nazionalizzazioni o, almeno, di riposizionamento dello Stato nei gangli strategici della vita del paese, come le telecomunicazioni e la grande produzione alimentare, oltre che le vie di comunicazione.
Il governo statunitense, guidato da Richard Nixon, non poteva e non voleva tollerare ciò che avrebbe messo in discussione il dominio statunitense e persino i suoi stessi avamposti militari strategici al Polo Sud. La Casa Bianca, spinta dalle multinazionali americane come la At&T e la United Fruit Company (che vedevano sfumare profitti altissimi) e desiderosa di fornire una lezione valida per chiunque, decise quindi di promuovere il rovesciamento violento del governo di Salvador Allende. L’ispiratore del Colpo di Stato fu Henry Kissinger, criminale internazionale che, come altri, è stato insignito del Nobel per la pace, forse come omaggio per le competenze maturate nell’arte dello sterminio programmato.
L’11 Settembre 1973, con la vittoria dei golpisti agli ordini del Generale Augusto Pinochet, il Cile smetteva di essere solo un paese del Sud America per trasformarsi in un nuovo paradigma internazionale. Quello che stabiliva, da lì in avanti, che i riti democratici vanno rispettati solo se conviene; che le elezioni sono valide solo se vincono gli alleati degli Stati Uniti e vanno annullate se invece vincono le forze popolari. Certo, all’epoca, facendo ricorso all’arsenale ideologico della Guerra Fredda, di fronte ai processi rivoluzionari si doveva invocare l’alternativa della democrazia rappresentativa, i suoi riti elettorali, la divisione dei poteri e la relazione tra elettori ed eletti mediata dai corpi intermedi. Ma, nel caso anche con questo percorso si fosse affermata la sinistra – allora di origine socialista e comunista - il cammino essere interrotto con ogni mezzo ed a qualunque prezzo.
Si determinava insomma, una volta e per tutte, che la democrazia parlamentare è poco più che un gioco di società quando in ballo ci sono il comando politico e il possesso delle risorse. Che gli Stati Uniti sono detentori assoluti del destino di qualunque paese ovunque nel mondo, il quale ha dinanzi a sé due opzioni: obbedire o perire.
Paraguay e Uruguay, Argentina e Brasile, Bolivia, Ecuador, Venezuela, Nicaragua: l’intero sub continente latinoamericano è stato il teatro a cielo aperto della rappresentazione più autentica del modello statunitense, che prevedeva (e tutt’ora prevede con differenze metodiche, non di sostanza) l’annullamento di ogni istanza indipendentista e socialista affinché Centro e Sud America garantiscano, con il saccheggio continuato di ogni loro risorsa, l’accumulo di ricchezze che, insieme alla supremazia militare internazionale, definisce lo status di superpotenza degli Stati Uniti ed il suo comando unipolare.
Le dittature militari fasciste latinoamericane furono anche un laboratorio criminale, il primo esperimento su scala internazionale di un sistema di polizia destinato al rastrellamento degli oppositori politici. Si chiamò Plan Condor e vide la CIA coordinare le polizie di tutte le dittature nella ricerca, cattura, tortura e uccisione di decine di migliaia di militanti della sinistra e delle forze democratiche. come ricorda la tragica storia di Colonia Trinidad, non mancò la collaborazione alle operazioni di ex gerarchi nazisti riparati in Uruguay, Argentina a Paraguay; vi erano giunti grazie alle forze armate statunitensi che, dopo la caduta del nazifascismo, decisero di avvalersi di personaggi della ex Gestapo, la cui esperienza sarebbe tornata utile in vista della lotta contro la crescente influenza del socialismo internazionale.
Due generazioni di boia vennero formati allo scopo di garantire la supremazia statunitense nel continente. L’addestramento degli investigatori latinoamericani fu a carico dell’agenzia spionistica di Langley, mentre la formazione dei torturatori e dei vertici militari venne effettuata dal Pentagono, che la organizzò nella famigerata Escuela de las Americas con sede a Panama.
Il Cile, poi, rappresentò anche uno spartiacque a livello internazionale. Sul suo destino caddero maschere ed emersero verità occulte. Al fianco di Allende, nel balcone della Moneda, si affacciò il Comandante Fidel Castro, che nel corso della sua visita, con la sua consona preveggenza, volle regalare al presidente cileno un fucile mitragliatore di fabbricazione russa, AK-47, impugnando il quale Allende si recò all’ultimo combattimento della sua vita contro i militari golpisti.
Molti anni dopo, da quello stesso balcone, in una foto che racconta tutto quel che c’è da sapere circa i rispettivi personaggi e l’incrocio di affinità ideologiche, si affacciavano insieme e sorridenti Papa Woytila e il dittatore Augusto Pinochet, che ebbe nell’allora Pontefice, in Ronald Reagan e soprattutto in Margareth Teatcher, i suoi migliori alleati e amici.
Quarantacinque anni dopo, la lezione cilena ricorda a tutti come le strategie di destabilizzazione dei governi considerati ostili dagli Stati Uniti siano arma ricorrente ai quattro angoli del pianeta, ma racconta anche che la loro riuscita ha bisogno di un clima internazionale e di forze armate disposte al tradimento quali condizioni indispensabili per la riuscita dei golpe.
Per questo, nonostante le pressioni, le sanzioni, gli embarghi e l’isolamento, la propaganda mediatica e le minacce militari, con il Venezuela e il Nicaragua i golpisti non ce la faranno. I tentativi di golpe vincono solo dove la sinistra perde il contatto con il suo popolo, la capacità di difendere le sue istituzioni, di arrendersi di fronte a quello che in penombra può anche sembrare un gigante, ma che a veder bene risulta spesso essere un nano sulle spalle di un altro.
Allora è bene conservare la memoria di quel medico socialista che, con un elmetto in testa e un fucile mitragliatore in mano, decise che dinanzi alla prepotenza imperiale si può perdere tutto ma non la dignità; che si può morire, persino, pur di non mettersi in ginocchio.
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