martedì 26 novembre 2019

Il lento assassinio di Assange.



di Michele Paris
In parallelo al grave deterioramento delle condizioni psico-fisiche di Julian Assange, martedì la magistratura svedese ha archiviato per l’ennesima volta l’indagine preliminare a carico del fondatore di WikiLeaks, basata su accuse ultra-screditate di violenza sessuale risalenti a quasi un decennio fa. La decisione della procura di Stoccolma era inevitabile, vista la totale inconsistenza del caso, ma dimostra ancora una volta come il procedimento fosse stato creato ad arte per incastrare Assange. La sua estradizione negli Stati Uniti resta invece ancora molto probabile, come ha testimoniato nuovamente l’udienza preliminare di questa settimana in un tribunale di Londra in previsione del dibattimento vero e proprio fissato per il prossimo mese di febbraio.
La vicenda legale di Assange in Svezia, mai sfociata in un’incriminazione formale, aveva avuto fin dall’inizio due chiarissimi obiettivi, per raggiungere i quali furono manipolati in modo clamoroso sia i fatti alla base delle accuse sia le testimonianze delle due presunte vittime. Il primo era la costruzione di un vero e proprio complotto pseudo-legale necessario a favorire l’estradizione di Assange negli USA. Il secondo per infangare il nome del giornalista australiano, facendolo passare per uno “stupratore” in fuga dalla giustizia, e creare un clima tale da indebolire le resistenze nell’opinione pubblica alla sua persecuzione.
Entrambe le accusatrici o presunte tali, è bene ricordare, intendevano chiedere alle autorità di polizia svedesi soltanto un test HIV per Assange, con il quale avevano avuto rapporti consensuali. Furono la polizia stessa e la magistratura a insistere per una denuncia e in seguito a emettere un ordine di arresto per il giornalista australiano. Inizialmente, anzi, il caso era stato chiuso da un magistrato proprio perché senza fondamento. Assange aveva allora lasciato la Svezia per recarsi a Londra. Solo in seguito, un altro procuratore avrebbe deciso di riaprire le indagini, verosimilmente dietro pressioni di ambienti politici filo-americani, chiedendo un “mandato di arresto europeo” per Assange.
Per anni, le autorità svedesi avevano insistito sulla possibilità di sentire quest’ultimo soltanto di persona e nel loro paese, nonostante i numerosi precedenti di interrogatori condotti in Gran Bretagna o in collegamento video. Assange aveva contestato nei tribunali britannici la richiesta di estradizione, ben sapendo che la Svezia aveva intenzione di mettere le mani su di lui per poi consegnarlo a Washington. Esaurite le strade legali per la sua difesa, il fondatore di WikiLeaks decise nel giugno del 2012 di chiedere asilo politico presso l’ambasciata dell’Ecuador a Londra, dove sarebbe rimasto fino all’arresto illegale nell’aprile di quest’anno, orchestrato dai governi della Gran Bretagna e del paese sudamericano sotto la guida del nuovo presidente, Lenin Moreno.
Durante la permanenza nella rappresentanza diplomatica ecuadoriana, Assange è stato sottoposto a una lunga serie di violazioni dei suoi diritti, tra cui la sorveglianza continua di tutte le sue attività da parte di una compagnia spagnola al servizio dell’intelligence americana. Come hanno rivelato alcune e-mail pubblicate qualche tempo fa dalla stampa, inoltre, i magistrati britannici avevano insistito con quelli svedesi per prolungare il loro procedimento legale nei confronti di Assange. Il caso sarebbe stato poi archiviato, per la seconda volta, nel maggio del 2017, prima di essere riaperto in seguito al suo definitivo arresto nel mese di aprile.
La nuova archiviazione di questa settimana farà ben poco da un punto di vista legale per aiutare la posizione di Julian Assange. Anche se sfociata nel nulla, l’indagine svedese ha comunque svolto il ruolo per il quale era stata avviata. Nella sua durissima comunicazione al governo di Stoccolma, il relatore speciale sulle torture dell’ONU, Nils Melzer, aveva definito il caso svedese come “il principale fattore che ha innescato, consentito e incoraggiato la successiva campagna persecutoria contro Assange in vari paesi e il cui effetto cumulativo può essere definito soltanto come tortura psicologica”.
Questa campagna ha dato anche l’opportunità a buona parte della galassia “liberal” e finto-progressista occidentale di manifestare il proprio servilismo di fronte al governo degli Stati Uniti attraverso una serie di attacchi incrociati contro Assange per le accuse infondate di stupro, sulla base di premesse ideologiche legate alle politiche identitarie oggi tanto care alla “sinistra” ufficiale. Particolarmente vergognoso è stato il trattamento riservato in questi anni ad Assange da testate come il New York Times e il britannico Guardian, scelti in passato da WikiLeaks per la pubblicazione di documenti riservati del governo americano.
La notizia dell’archiviazione dell’indagine in Svezia deve avere creato qualche malumore nel governo di Londra e nella magistratura britannica. Il caso aperto a Stoccolma aveva infatti lasciata aperta l’opzione di una possibile estradizione verso la Svezia piuttosto che verso gli USA, in modo da permettere agli ambienti implicati nella persecuzione di Assange di consegnarlo a un paese il cui rispetto per i diritti democratici è presumibilmente indiscutibile e dove lo attendeva un procedimento tutto sommato di lieve entità.
In questo modo, la classe dirigente britannica avrebbe potuto in sostanza lavarsi le mani circa la sorte di Assange ed evitare almeno in parte le reazioni dell’opinione pubblica e dei sostenitori del giornalista australiano in caso di estradizione negli Stati Uniti. Dopo che la Svezia ha però chiuso l’indagine preliminare, sarà la magistratura e il governo della Gran Bretagna ad avere la piena responsabilità dell’eventuale consegna di Assange alla vendetta di Washington.
Per avere svolto il proprio lavoro di giornalista, rivelando i crimini dell’imperialismo americano e non solo, Assange rischia di dovere affrontare negli Stati Uniti ben 18 capi d’accusa relativi, tra l’altro, all’hackeraggio di computer governativi e ad attività di spionaggio, rischiando complessivamente fino a 175 anni di carcere. Per evitare lo stop all’estradizione dalla Gran Bretagna, le autorità americane non hanno presentato accuse che potrebbero prevedere la pena di morte. Tuttavia, una volta che Assange sarà nelle mani della giustizia USA, è interamente possibile che simili accuse si aggiungano a quelle già formulate.
La situazione di Julian Assange appare comunque sempre più delicata. Il già ricordato funzionario delle Nazioni Unite ha in più di un’occasione mostrato e denunciato l’illegalità del trattamento a lui riservato da Gran Bretagna e Stati Uniti, così come dall’Ecuador, che lo ha consegnato alle autorità di Londra rinnegando l’asilo concesso nel 2012, e dall’Australia, paese di origine di Assange di fatto sempre rifiutatosi di difendere i suoi diritti.
Oltre al pericolo di un’estradizione negli Stati Uniti, è la stessa vita del numero uno di WikiLeaks a essere oggi seriamente minacciata. La salute di Assange è in continuo deterioramento e, ciononostante, non sembra essere in vista nessun allentamento delle condizioni di detenzione nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, dove oltretutto il suo diritto alla difesa viene severamente ristretto.
Anche alla luce dell’ostilità dei giudici che stanno presiedendo alla sua causa, alcuni con legami famigliari documentati agli ambienti della “sicurezza nazionale” britannica e americana, è del tutto legittimo pensare che l’opzione preferita dalle autorità britanniche sarebbe precisamente la morte in carcere di Assange. Quello che ammonterebbe a tutti gli effetti a un assassinio di stato di colui che a oggi è forse il più importante detenuto politico del pianeta, risolverebbe molti problemi per Londra, evitando le inevitabili polemiche e proteste che finirà per scatenare l’estradizione verso Washington.
La vicenda Assange, ad ogni modo, ha un’importanza enorme, malgrado il sostanziale disinteresse dei media ufficiali. Al di là delle colossali violazioni dei suoi diritti e del comportamento criminale di almeno cinque governi, una sua condanna avrebbe implicazioni inquietanti per il principio stesso della libertà di stampa. La persecuzione nei confronti di Assange e di WikiLeaks ha infatti come obiettivo ultimo il tentativo di impedire a qualsiasi testata giornalistica la legittima pubblicazione di notizie e materiale riservato, soprattutto se relativo ai crimini e alle operazioni anti-democratiche del governo degli Stati Uniti.
dal sito  www.altrenotizie.org
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giovedì 14 novembre 2019

Bolivia, il golpe etnico - di Fabrizio Casari

Evo Morales è giunto in Messico a bordo di un aereo militare inviatogli da Andrès Manuel Lopez Obrador. Perù ed Ecuador hanno negato il diritto di sorvolo all’aereo messicano e la cialtronata rende bene l’idea di cosa siano i governi di Lima e Quito. Evo è stato costretto all’esilio per fermare la caccia all’uomo che i golpisti avevano previsto, che sarebbe terminata solo con la morte del presidente legittimo della Bolivia e del suo vice, Alvaro Garcia Linera.
La stampa ufficiale e i suoi megafoni europei parlano di dimissioni, ma tra dimettersi ed essere costretto a dimettersi c’è una differenza che si chiama Colpo di Stato. E quello avvenuto in Bolivia è, semplicemente, indiscutibilmente, un colpo di Stato. Solo che chiamarlo con il suo nome otterrebbe una condanna da parte di tutti, anche di quelli che ora si fregano le mani, quindi è gara aperta per i possibili eufemismi con cui definire quanto accaduto.
Non c’è stata nessuna irregolarità nel conteggio dei voti alle elezioni, lo confermano esperti statunitensi. Ma hai voglia a contare voti, se il voto che decide è quello di un altro Paese. Hai voglia a districarti nelle maglie della Costituzione se viene violata. Hai voglia a pretendere che gli organismi internazionali svolgano il proprio ruolo se agiscono con lo strabismo dell’OSA che chiede il rispetto del mandato presidenziale in Ecuador ma non in Bolivia. Stati Uniti e multinazionali degli idrocarburi ordinano il menù che camerieri locali in abiti civili e uniformi militari consegnano al tavolo.
Un presidente legittimo, che ha il 47% dei voti, è stato obbligato a dimettersi. La democrazia muore a La Paz e chi dovrebbe difenderla, militari e polizia, sono i primi a seppellirla insieme alla dignità delle loro divise. Le orde fasciste della destra boliviane sono state scatenate per diffondere il terrore con lo stesso identico copione utilizzato in Nicaragua nel 2018: persone prese, torturate, denudate ed umiliate obbligate al peggio; stupri, assassinii, case messe a ferro e fuoco, assalti alle istituzioni, spargimento del terrore in ogni dove. Perché quando il mandante è lo stesso il copione è identico.
La violenza ha trasformato la minoranza in maggioranza. Non è necessario essere fedeli al governo, basta essere indigeni per subire la ferocia più atroce. Perché questo colpo di Stato è, tra le altre ignominie, una vendetta etnica. Contro un presidente che aveva fatto dell’amalgama etnica e della mediazione tra i diversi interessi di classe un segno della riconciliazione nazionale, ferita da un passato di presidenti cialtroni specializzati nell’ordinare ai militari di sparare sugli indigeni per tenere aperti i portafogli dei privilegi dei bianchi. I militari sono stati parte attiva, anche se defilata, del progetto di colpo di Stato. Hanno recitato la parte prevista, avvertendo il legittimo presidente che non sarebbe stato difeso dalla minaccia di ucciderlo, di sterminare i suoi ministri e la sua famiglia. Gli hanno ordinato e non suggerito di dimettersi, come voleva la destra; di annullare il voto come voleva la destra; di cacciare il tribunale elettorale, come voleva la destra. Insomma, se voleva salvare il paese poteva scegliere: obbedire alla destra senza i militari od obbedire alla destra con i militari. Perché la destra è, prima di ogni altra cosa, lo strumento che gli Stati Uniti adoperano per prendersi un Paese. E i militari obbediscono. Non alla Costituzione boliviana, ma al Comando Sud dell’US Army.
L’odio razzista nei confronti del primo presidente indigeno della Bolivia è la manifestazione visibile di un conflitto impossibile da sopire: quello tra i margini di profitto delle multinazionali estrattive e la sopravvivenza della parte più umile della popolazione, che coincide con i fondatori e proprietari di quella terra benedetta e condannata dalle risorse che ospita. Se Evo Morales non avesse trasformato la Bolivia in un paese degno di tale aggettivo non sarebbe stato deposto. Se non avesse avuto l’ardire di nazionalizzare le risorse e di tagliare le unghie delle multinazionali che su quelle risorse banchettavano, non avrebbe subito un colpo di Stato. Se non avesse creato e soprattutto distribuito ricchezza alla popolazione più umile, non avrebbe subito l’odio dei ricchi.
Il colpo di Stato in Bolivia non ha a che vedere con il voto ma con il gas, il litio e le foglie di coca. E’ cominciato da oltre un anno, per volontà e denaro dei gusanos cubano americani della Florida, in testa il senatore Ted Cruz e Bob Menendez, compari di ogni vergogna e la collaborazione della DEA, principale vigile del traffico dei narcotici. La DEA, che venne cacciata da Evo Morales, è lo strumento che gli USA utilizzano per penetrare gli apparati di sicurezza dei distinti paesi: con la storiella della lotta alla droga, Washington infiltra gli apparati militari dei paesi dove si trovano le risorse che gli servono ma che gli USA non producono.
I vertici castrensi boliviani si sono venduti per quattro spiccioli, auto assegnandosi il valore lordo delle loro luride uniformi. Hanno giurato fedeltà alla Costituzione ma il loro conto corrente subiva il fascino straniero da diversi anni. La frequentazione, iniziata nei tempi delle scuole di specializzazione militari statunitensi, si è andata rinsaldando negli ultimi anni. Il Capo della polizia boliviano, Vladimir Calderon, è stato attaché militare della Bolivia nella ambasciata di Washington fino al Dicembre del 2018. Il Comandante delle Forze Armate Boliviane è stato anch’egli attaché militare nell’ambasciata boliviana a Washington dal 2013 al 2016. Sono questi due casi, forse i più noti, che evidenziano uno dei problemi maggiori per le democrazie latinoamericane, ovvero l’ingerenza pesante, diretta e senza limiti degli Stati Uniti. Quelli dell’abbordaggio da parte di FBI, CIA ed NSA dei diplomatici e dei militari presenti nelle ambasciate dei paesi ritenuti “delicati” è prassi consolidata.
E’ uno dei casi nei quali i rappresentanti dell’apparato militare e di sicurezza latinoamericani intraprendono una relazione con gli apparati di sicurezza del paese anfitrione e, da rappresentanti degli interessi del loro paese presso gli Stati Uniti, si trasformano in rappresentanti degli interessi degli Stati Uniti nel loro paese. Con gli stessi scopi Washington propone cooperazione nell’ambito militare e la formazione delle gerarchie militari e dei ranghi principali della magistratura viene svolta negli Stati Uniti. Non solo: da almeno 15 anni gli USA si incaricano anche della formazione di studenti universitari ritenuti particolarmente adatti al ruolo di leader politici. Comprano con master, tutoli, cattedre e dollari la fedele collaborazione dei servi utili, che in cambio di tanto affetto dovranno poi adoperarsi per portare a termine il lavoro sporco che gli viene comandato. Militari, giudici, leader politici e dirigenti finanziari: sono le figure sulle quali Washington investe per la costruzione di autentiche quinte colonne all’interno dei paesi oggetto degli interessi statunitensi.
Nel caso di magistrati e militari è inutile tergiversare. Si può scegliere l’aggettivazione, si possono riscontrare attenuanti, ma si chiama tradimento. Si vendono per denaro, per carriera, per frustrazione o per smodata ambizione; alcuni si vendono anche solo per il piacere di compiacere, per l’attitudine all’inginocchiamento e in questo caso sono quelli che si vendono a prezzi di saldo, cartellino adeguato per dignità a stralcio. Il tradimento è una categoria della politica e della guerra e appartiene dunque all’ambito civile come militare. Ma è proprio quello militare, per definizione destinato alla difesa della patria, della sua integrità territoriale e delle sue ricchezze che, quando si verifica, colpisce maggiormente. Tanta passione per divise, stivali e parate, berretti e medaglie, mostrine e sbatter di tacchi e poi, semplicemente, per niente o per poco ci si vende, ricchi di fellonia sperando che si quoti in dollari.
Nel paese continuano gli scontri tra polizia e i sostenitori della democrazia costituzionale. I gruppi di fascisti e razzisti che nei giorni scorsi scorazzavano per il paese, se la sono data a gambe di fronte agli indigeni che scendevano sulla capitale, lasciando alla polizia golpista il compito di sgrossarne le fila. Polizia che ora ha trovato di nuovo le sue motivazioni in dollari per uscire dalle caserme ed andare a riportare l’ordine, che comporta anche l’aprire il fuoco a bruciapelo contro i manifestanti.
La soluzione politica resta una incognita seria: se non si vuole far scattare il ripudio internazionale contro il golpe e continuare con la storiella delle elezioni si deve tornare al voto. Per farlo c’è però bisogno del voto favorevole di Camera e Senato, entrambi controllati dal MAS di Evo Morales. E’ tutto da vedere che siano disposti a votare: se non indiranno il voto, ai golpisti toccherebbe sciogliere le Camere d’imperio. Ma la maggioranza potrebbe poi scegliere il terreno della Camera usurpata, sul modello venezuelano. Intanto, la tendenza a passare dal dramma al melodramma è sempre presente e succede che una improvvisata senatrice, Jeanine Anez, avvocato e moglie di un parlamentare colombiano, acerrima nemica di Evo ma nota soprattutto per la sua competenza sulle messe in piega senza piastra, si è autonominata capo dello Stato in funzione temporanea. Lo ha fatto senza il voto della maggioranza dei parlamentari ma lei non vede l’ora di assumere il ruolo di abusiva. Piccole Guaidò crescono. Stando alla Costituzione, le elezioni indette da Evo dovrebbero darsi entro 90 giorni, ma probabilmente faranno prima a scrivere un decreto che privatizza gli idrocarburi e - di questo si può avere certezza - saranno “miracolosamente” la Chevron e la Esso a vincere le gare per il saccheggio. Intanto i militari hanno grande appetito e tasche bucate, chiedono più soldi e fremono per mettersi alla testa del Paese: vogliono decidere quando e con che regole mandare i boliviani al voto. O magari farglielo dimenticare per un bel pezzo. Leggi tutto...

Vittoria di Cuba alle Nazioni Unite.


Una clamorosa vittoria ha raggiunto oggi la più grande delle Antille nell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che con 187 voti a favore, 3 contrari e 2 astensioni ha approvato la risoluzione “Necessità di porre fine al blocco economico, commerciale e finanziario imposto dal Stati Uniti d’America contro Cuba ”.

Il mondo rifiuta di nuovo il blocco. Gli Stati Uniti e Israele hanno ripetuto quest’anno come i paesi in opposizione alla risoluzione, una coppia a cui il Brasile ha aderito. La Colombia e l’Ucraina si sono astenute.

La Moldavia non ha esercitato il diritto di voto. Per 28 anni consecutivi, dal 1992, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato con crescente maggioranza la risoluzione cubana e ha quindi richiesto la revoca del blocco economico, commerciale e finanziario che gli Stati Uniti imposero 60 anni fa sull’isola.

Associazione Nazionale Amicizia Italia-Cuba Circolo di Senigallia.
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