martedì 21 gennaio 2020

Cuba, in scienza e coscienza


di Rosella Franconi
Il 15 gennaio di ogni anno si festeggia a Cuba il giorno della scienza cubana. Una ricorrenza che ha origine dalla frase iconica e visionaria pronunciata da Fidel Castro sul “futuro di uomini di scienza e di pensiero” il 15 gennaio 1960 (appena un anno dopo il trionfo della Rivoluzione e un anno prima della campagna di alfabetizzazione, quando il paese aveva il 25% di analfabeti) perché il nostro Paese ed il resto del mondo avrebbero molto da imparare da quel processo in continua evoluzione rappresentato dalla Rivoluzione cubana.
La scienza è certamente uno degli indicatori dello sviluppo di Cuba, un fiore all’occhiello di una Rivoluzione che ha dovuto misurare le sue ambizioni con un blocco economico, commerciale e finanziario inumano ed anacronistico in vigore dal 1961 ad opera degli Stati Uniti. Un blocco che, con la presidenza Trump, è stato ulteriormente accentuato e che ha esteso i suoi effetti extraterritoriali, con il complice accennato borbottio di europei, canadesi e giapponesi.
È un dato di fatto che gli indicatori di salute a Cuba, tra i migliori al mondo, sono stati raggiunti in un tempo breve, con risorse materiali limitate e in un contesto di ostilità e aggressività economica esterna (Lage A, Science and challenges for Cuban public health in the 21st century. MEDICC Rev, 2019;21:7–14). Nel 1960, l’aspettativa di vita era 63 anni e la mortalità infantile stimata in 34.8/1000 nati. I dati relativi al 2017 registrano un’aspettativa di vita alla nascita di più di 79 anni (7 in più della media globale, 3 in più dell’America Latina), una mortalità infantile di 4/1000 nati (più bassa che negli USA) e un medico ogni 122 abitanti, uno dei rapporti medico/abitante più alti nel mondo.
Non basta: “Save the Children” già nel 2010 definì Cuba il luogo migliore dove essere madre; nel 2015 l’OMS definì Cuba il primo paese al mondo ad aver eliminato la trasmissione madre-figlio di HIV e sifilide (si tenga conto anche che da poche settimane viene distribuito il vaccino sperimentale cubano anti-HIV, che promette risultati di assoluto livello ndr) elogiando come esempio per tutto il mondo il sistema sanitario cubano basato sulla medicina preventiva; nel febbraio 2019, Bloomberg ha incluso Cuba tra i 30 paesi più sani al mondo (più in alto di tutta l’America Latina ma anche degli USA). E la lista potrebbe non finire qui.
Cuba rappresenta quindi un’eccezione alla classica correlazione tra indicatori di salute e PIL. La dissociazione di questi due fattori appare ancora più evidente durante il “Periodo Speciale”, iniziato nel 1991 con la scomparsa della URSS (e che ha segnato la “vittoria” del capitalismo neo-liberale sui progetti socialisti e la confusione mondiale delle sinistre) quando il PIL si è ridotto del 35-40%. I modelli convenzionali avevano predetto che gli indicatori di salute si sarebbero deteriorati (cosa che di fatto avvenne nei paesi dell’Est e in Russia). Eppure, a Cuba ciò non avvenne. Quello che è accaduto dopo la rivoluzione del ‘59 rappresenta perciò un fenomeno fuori dagli schemi che merita di essere approfondito.
C’è un aspetto di Cuba ancora poco conosciuto (e volutamente oscurato dalla propaganda internazionale), quello della creazione di un sistema sanitario e scientifico al livello dei Paesi avanzati. La giovanissima dirigenza rivoluzionaria aveva molto chiaro che per affrancare il Paese dalla condizione di subalternità e dipendenza era necessario sviluppare autonomamente le competenze scientifiche e tecniche più avanzate, per adattarle alle esigenze dell’isola e sviluppare un servizio sanitario universale e gratuito per il benessere della popolazione.
L’audace discorso di Fidel (ispirato dal pensiero di José Marti “Per essere liberi bisogna essere colti”) del 1960, “Il futuro di Cuba non può essere che un futuro di uomini di scienza”, condiviso integralmente dal Che e gli altri dirigenti, diede un segnale a tutta l’intellighenzia che non aveva abbandonato l’isola e compattò in questa impresa l’intera popolazione che percepì chiaramente di essere destinataria dei progressi del Paese, malgrado la crisi inevitabile di molti settori.
Dopo che la capillare campagna di alfabetizzazione sradicò l’analfabetismo e l’istruzione fu resa gratuita a tutti i livelli, in una situazione di assedio da parte degli USA, ebbe così inizio questo processo e la coesione del Paese, sostenuta dalla caparbietà di Fidel, consentì che fosse realizzato in pieno.
Da subito Cuba si è distinta nell’intero campo socialista per la libertà che si assunse in tante scelte decisive, preferendo le vie più pratiche ed efficaci per realizzare i propri obiettivi. Per lo sviluppo della ricerca scientifica nei campi più avanzati infatti i cubani, mentre si appoggiavano all’URSS e ad altri Paesi comunisti, si avvalsero fin dai primi anni ‘60 anche del supporto diretto di numerosi scienziati dei Paesi capitalisti, i quali introdussero corsi universitari avanzati, le prime attività di ricerca e tecnologie sulle quali l’URSS si trovava più arretrata, come nel campo della genetica moderna.
Qui giocarono un ruolo fondamentale un gran numero di giovani biologi italiani i quali nei primi anni ‘70 impartirono a Cuba corsi di genetica molecolare e di altre branche della biologia moderna, e formarono la generazione dei biologi cubani che dopo il 1980 sviluppò un florido settore di biotecnologie, proprio quando questo campo nasceva a livello mondiale. Proprio il 31 dicembre scorso abbiamo pianto la scomparsa di Paolo Amati, che di queste insostituibili collaborazioni fu l’alfiere: vogliamo ricordarlo con le parole che ci disse: “Dai cubani ho imparato molto”!
L’industria biotecnologica cubana, fondata su una struttura più efficiente ed alternativa a quella capital-intensive dominante, a dispetto del bloqueo, raggiunse già negli anni ‘80 livelli di eccellenza mondiale: fondata sul ciclo completo ricerca-test clinici-produzione-commercializzazione-esportazione, in stretto collegamento con il sistema sanitario e gli ospedali, ha messo a punto vaccini e terapie per le principali patologie della popolazione, promuovendo la “diplomazia medica” e una cooperazione sud-sud con i paesi in via di sviluppo. Cooperazione che da qualche tempo è sotto attacco da parte degli USA: come esempio, basti ricordare i 3 milioni di dollari stanziati dall’ l’Agenzia per lo Sviluppo Internazionale (USAID) e destinati a progetti contro le brigate mediche di Cuba all’estero.
La gravissima crisi che investì Cuba con il crollo dell’Unione Sovietica portò una, pur indesiderata, conferma della scelta di fondo degli anni ‘60: non solo il sistema scientifico cubano, malgrado l’inevitabile crisi di molti settori, resistette nella sostanza al tremendo colpo, ma Fidel rinnovò la scelta che era stata decisiva negli anni ‘60, intensificando il finanziamento dell’industria biotecnologica. E anche questa volta la scelta si è rivelata vincente! Il settore biomedico è il secondo per ingresso di valuta pregiata di cui Cuba ha disperato bisogno, dopo il turismo, che attraversa una crisi dopo l’inasprimento del bloqueo.
L’articolo 21 della nuova Costituzione cubana (approvata nel 2019 dopo referendum popolare) recita: “lo Stato promuove lo sviluppo scientifico, tecnologico e l’innovazione come elementi imprescindibili per lo sviluppo economico e sociale… favorisce l’introduzione sistematica dei suoi risultati nei processi produttivi dei servizi attraverso il quadro istituzionale e normativo corrispondente...”.
La scienza ed il metodo scientifico, già posti precocemente alla base della costruzione della conoscenza, entrano ora ufficialmente a far parte delle forze produttive: è il “futuro di uomini di scienza e di pensiero”: quello che Fidel Castro aveva previsto.
da www.altrenotizie.org
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martedì 14 gennaio 2020

morto Pansa, revisionista della peggior specie.


Ieri è morto Giampaolo Pansa e questa mattina le pagine dei giornali si sono riempiti dei consueti “coccodrilli” e dei ricordi commossi dei suoi colleghi. Sulle pagine del Corriere della Sera Valter Veltroni, chiamandolo confidenzialmente “Giampaolo”, lo definisce un “narratore col binocolo”, un “meraviglioso raccontatore”, “un giornalista onesto, benchè aspro”. 
qui l'articolo per stomaci forti: https://www.corriere.it/cronache/20_gennaio_13/pansa-giornalista-onesto-anche-scelte-piu-radicali-c873e006-35a2-11ea-8d46-5a62eb738d23.shtml
Basterebbe forse quest’ossequioso ricordo da parte del fondatore del PD, quello che oggi viene spacciato come partito di sinistra, per comprendere alcune delle ragioni dello stato in cui siamo ridotti e la ripugnanza che questo termine, “sinistra”, oggi provoca in larghi strati delle classi popolari. Noi, dal canto nostro, non ci uniamo al coro nè tantomeno, come talvolta si usa in questi casi, sentiamo il bisogno di rendere l’onore delle armi al nemico caduto, anzi, oggi per i comunisti è un giorno un po’ meno di merda del solito e forse non a caso il sole splende alto. Giampaolo Pansa era è resta un revisionista della peggior specie, uno che si è reso protagonista consapevole dell’attacco alla storia dei comunisti  e della lotta di classe di questo paese, e che lo ha fatto perchè prezzolato, per il proprio tornaconto personale, vendendo il suo pedigree di giornalista e storico “di sinistra” che finalmente rompeva il silenzio per dire “la verità”. 
dal blog Militant
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giovedì 2 gennaio 2020

Sebastian Moro, una morte da chiarire.



di Fabio Marcelli             
Una delle prime preoccupazioni degli assassini è quella di far sparire i testimoni dei loro crimini. Trattandosi di crimini politici su vasta scala, come il recente golpe in Bolivia contro Evo Morales con annessi massacri, si tratta di far sparire i giornalisti, quelli onesti ovviamente, non gli embedded che fanno finta di fare i giornalisti. Eliminandoli fisicamente.
Per questi motivi suscita molti e giustificati interrogativi la morte del giornalista argentino Sebastián Moro, che viveva a La Paz dal febbraio 2018, svolgendo un’intensa attività informativa per la stampa e le radio locali ed era anche inviato speciale del noto quotidiano argentino Pagina 12 e di molti altri organi di informazione indipendenti, comunitari ed alternativi latinoamericani.
Moro lavorava per media appartenenti alla Confederazione Sindacale Unica dei Lavoratori Contadini della Bolivia, un’importante organizzazione di massa molto attiva tra agricoltori ed indigeni. Il suo ruolo nell’informazione relativa al colpo di Stato e agli attacchi fascisti che lo hanno preceduto ha attirato su di lui l’attenzione di gruppi terroristici di estrema destra. Non è casuale che la sua ultima nota a Pagina 12, inviata il 9 novembre, riguardava proprio gli sviluppi del colpo di Stato in una giornata contrassegnata dagli ammutinamenti dei poliziotti favorevoli ai golpisti. Quello stesso giorno Moro aveva assistito alla devastazione degli uffici dove lavorava da parte delle bande fasciste che hanno costituito il detonatore del colpo di Stato.
Dopo l’invio dell’ultima corrispondenza non si sono più avute notizie di Sebastian, successivamente ritrovato, dopo l’intervento della famiglia, in stato di incoscienza all’interno dell’appartamento dove viveva e ricoverato d’urgenza in una clinica privata di La Paz. Nonostante le cure ricevute in terapia intensiva le condizioni del giornalista si sono progressivamente aggravate, fino al coma profondo e poi alla morte.
Occorre stabilire se le numerose lesioni interne ed esterne, contusioni multiple e politraumi rinvenute sul suo corpo siano effettivamente riconducibili all’incidente cardiocircolatorio, causa ufficiale della sua morte. Potrebbe invece essersi trattato di una brutale aggressione, accompagnata dalla sottrazione dei ferri del mestiere: un giubbotto con la scritta “giornalista della CSUTCB”, il registratore e il quadernetto degli appunti.
La vicenda va del resto collocata nel quadro della vera e propria caccia cruenta a giornalisti, dirigenti sociali e funzionari pubblici con relativi familiari, scatenata proprio in quei giorni dalle orde fasciste che agivano e continuano ad agire in Bolivia su ispirazione dell’amministrazione Trump e con l’aperto sostegno delle Forze armate e della Polizia.
Proprio nelle ore in cui Moro viveva la conclusione della sua operosa esistenza venivano incendiati e saccheggiati in modo sistematico gli organi informativi schierati con il legittimo governo di Evo Morales.
Il direttore generale dei mezzi informativi della CSUTCB a La Paz, José Aramayo, subiva, quello stesso giorno, un tentativo di linciaggio da parte delle squadracce cui seguiva un arresto da parte della Polizia con motivazioni pretestuose. La notte del sabato in questione vari mezzi pubblici di informazione come Red Patria Nueva, Bolivia TV, Canal Abya Yala, ed altri, venivano silenziati in modo violento da forze di Polizia e paramilitari. La famiglia ha denunciato l’accaduto alla Commissione Interamericana dei diritti umani che si è occupata, fra le altre cose, dell’attacco, tuttora in corso, alla libertà d’informazione nel Paese.
Occorre far luce su ogni aspetto della morte di Sebastian Moro, portandolo quanto prima all’attenzione delle giurisdizioni competenti. Queste ultime, compresa la Corte penale internazionale, potrebbero ben presto essere chiamate a investigare su molti dei crimini commessi dai golpisti.
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