venerdì 28 dicembre 2012
Kerry, il cambio possibile verso Cuba?
di Fabrizio Casari
La nomina del senatore democratico John Kerry, Presidente della Commissione Esteri del Senato a Segretario di Stato appare ormai imminente. La definitiva giubilazione di Susan Rice, la cui candidatura è rimasta sepolta sotto le macerie dell’ambasciata Usa a Bengasi, è già di per sé una buona notizia. La Rice, falco e devota custode dell’inclinazione imperiale, avrebbe certamente condizionato in senso più conservatore la già poco progressista politica estera di Obama. Alla nomina di Kerry potrebbe poi sommarsi quella dell’ex senatore democratico Chuck Hagel, che potrebbe divenire il nuovo Segretario alla Difesa.
Questo è l'inizio del post.
Con queste due nomine, il circolo ristretto di Obama in materia di politica estera e militare (cioè le due facce della stessa medaglia) si gioverebbe di un deciso cambio di orientamento in termini di linea politica. Sia Kerry che Hagel, infatti, sono uomini di esperienza e competenza già sperimentate in politica estera e certamente, riguardo alla relazione tra USA e Cuba, rappresentano il punto di vita intelligente di quella parte di establishment che ritiene debba considerarsi chiusa la storia anacronistica dell’ostilità totale tra Washington e L’Avana.
Certo, gli interessi strategici della superpotenza non sono suscettibili di variazione profonda, che possano cioè ribaltare il sistema valoriale che sostiene la dionisiaca volontà di potenza dell’impero, però è altrettanto vero che una diversa impostazione politica sui temi delle relazioni internazionali ha avuto luogo nella storia statunitense, si pensi solo alla presidenza Carter. Il secondo mandato di Obama potrebbe assumere un profilo riformatore tante volte annunciato all’inizio del primo mandato e mai giunto.
Fin dal 1984, quando venne eletto al Senato, Kerry è sempre stato un avversario tenace delle politiche interventiste statunitensi in America latina, da lui sempre considerata come un continente con il quale mantenere una relazione politica importante e collaborativa; e nello specifico del rapporto con Cuba, ha sempre considerato inutile ed anacronistico il blocco statunitense, auspicando una svolta nelle relazioni bilaterali.
Coerentemente con le sue posizioni, Kerry non esitò a schierarsi contro lo stesso Obama in relazione all’utilizzo dell’agenzia USAID per destabilizzare Cuba, condizionando il via libera al finanziamento di venti milioni di dollari per le attività dell’agenzia ad una revisione di suoi programmi. Non esitò nemmeno a dichiararsi decisamente scettico circa l’utilizzo di fondi Usa per mantenere Radio e Tv Martì, le due emittenti legate alla FNCA, dicendosi convinto che “nessun cubano le vede o le sente e ancor meno gli interessano”.
In un chiaro riferimento agli episodi di malversazione di fondi e utilizzo degli stessi in funzione di greppia alla quale sfamano i propri appetiti i cosiddetti “dissidenti”, il senatore democratico non scelse le mezze misure per dichiararsi contrario: “Non ci sono prove - disse Kerry in un comunicato - che i programmi di promozione della democrazia, che fino adesso sono costati ai contribuenti statunitensi oltre 150 milioni di dollari, stiano aiutando il popolo cubano”. “Anzi - aggiunse - non sembra che i cosiddetti aiuti per la democrazia abbiano ottenuto risultati diversi da quello di aver provocato l’arresto di un contractor del governo statunitense (Alan Gross ndr) che distribuiva strumenti di comunicazione satellitari a contatti cubani”.
Dal canto suo Chuck Hagel, non ha mai risparmiato critiche proprio riguardo alla politica USA verso Cuba, definendola “senza senso”. Unico membro del Congresso che Carter invitò ad accompagnarlo in occasione della visita a Cuba nel 2002, Hagel si schierò a favore della legislazione per aprire il mercato cubano la vendita di alimenti e medicine e per ridurre le restrizioni sui viaggi tra Usa e Cuba.
Su Cuba la differenza d’approccio al tema della relazione con Cuba non risente particolarmente delle differenze tra Democratici e Repubblicani. Basti pensare che democratico è il deputato Robert Torricelli, autore di una legge anticubana che ha preso il suo nome e che ha fatto da apripista alla famigerata legge Helms-Burton, dal nome dei due senatori dell’ultradestra repubblicana. Insomma, quando si è trattato di accarezzare il pelo alla lobby terroristica e mafiosa cubano americana, né un partito né l’altro si sono sottratti all’obolo richiesto, pregiudicando in profondità la qualità della politica estera statunitense e vessando senza vergogna il popolo cubano.
La nomina di Kerry e Hagel, quindi, non verrà accolta nel modo migliore dai falchi del partito repubblicano e anche da quelli nelle file democratiche, tra questi primo fra tutti Bob Menendez, che insieme al senatore repubblicano Marco Rubio fu tra gli oppositori più accaniti del decreto presidenziale con il quale Obama riaprì i viaggi diretti tra Usa e Cuba (su questo fu scontro aperto proprio con Kerry, che appoggiava la decisione della Casa Bianca) e arrivò anche a minacciare la fine del contributo finanziario statunitense all’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) quando decise di accogliere Cuba nelle sue riunioni.
E anche relativamente all’ipotesi di un dialogo tra Washington e L’Avana che avesse al centro i casi di Alan Gross, detenuto a Cuba per spionaggio e i cinque cubani accusati anch’essi di spionaggio e detenuti negli Usa a seguito di processi-burla, Menendez ebbe a dire, in una intervista al New York Times, che avrebbe preferito lasciare Alan Gross in carcere “per non entrare in negoziati con qualcuno che è ostaggio del governo cubano”. Ma Menendez non se la passa bene, coinvolto in vari scandali e il livello delle pressioni che storicamente la comunità cubanoamericana ha esercitato verso la Casa Bianca perché mantenesse la sua ostilità verso l’isola caraibica, ha decisamente perso di peso specifico.
Obama, infatti, ha vinto ad ogni livello le elezioni in Florida e nella stessa Miami-Dade ed è risultato vincitore anche nel voto della comunità latina. L’apporto di Kerry e Hagel al suo gabinetto di governo potrebbe spingere il presidente, al suo secondo e ultimo mandato, quindi indifferente alla minaccia della rielezione, a dare vita ad un cambio significativo della politica vetusta ed inutile verso Cuba.
A cominciare dalla presa di distanza tra la Casa Bianca e il recalcitrante magma reazionario di Miami che ha sempre ricattato politicamente ed elettoralmente ogni presidente democratico che pensava di porre anche solo piccoli cambiamenti nell’agenda statunitense per la regione.
Una rottura con l’estremismo dei fuoriusciti di Miami e una riconsiderazione dei rapporti bilaterali con Cuba risulterebbe essere, tra le altre cose, un passaggio importante sia nei confronti della comunità internazionale, che ogni anno in sede ONU condanna il blocco Usa, sia per il miglioramento generale dei rapporti con l’insieme dell’America latina.
La fine dell’isterìa anticubana, peraltro,, proprio per quanto appena detto, influirebbe positivamente anche nella politica interna. Perché, come afferma Richard Lugar, senatore repubblicano uscente tra i più prestigiosi negli USA, “un cambio di politica verso Cuba è nell’interesse nazionale degli Stati Uniti”.
E questo è il resto.
E questo è il resto.
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