sabato 26 gennaio 2019

La prova di golpe puzza di petrolio.

di Guido Moltedo - il Manifesto del 25/01/19.

Usa/Venezuela. Con la cessazione delle esportazioni petrolifere verso gli Stati uniti, la Cina e l’ India, come avverte l’agenzia Bloomberg sono pronte a farsi avanti per acquistare a buon prezzo il petrolio di Nicolás Maduro. Anche la Corea del sud. Grandi paesi affamati di energia. E in competizione, aperta o latente, con gli Usa. Anche per questo Donald Trump sta puntando il tutto per tutto per sbarazzarsi di Maduro

È per il petrolio e sul petrolio che si gioca l’incauta sfida lanciata da Donald Trump al governo di Caracas. Le raffinerie statunitensi sono le clienti principali del grezzo venezuelano. E sarà sempre più evidente se la tensione, come sembra, dovesse innalzarsi, tra Washington e Caracas.
Perché, con la cessazione delle esportazioni petrolifere verso gli Stati uniti, la Cina e l’ India, come avverte l’agenzia Bloomberg sono pronte a farsi avanti per acquistare a buon prezzo il petrolio di Nicolás Maduro. Anche la Corea del sud. Grandi paesi affamati di energia. E in competizione, aperta o latente, con gli Usa.
Anche per questo Donald Trump sta puntando il tutto per tutto per sbarazzarsi di Maduro. Per portare i flussi petroliferi verso gli Stati uniti e arrivare a impadronirsi, di fatto, dei pozzi. E per tagliare le forniture verso i paesi che considera avversari.
Peraltro, il Venezuela è tra le grandi potenze petrolifere mondiali – nel 2019 è il presidente di turno dell’Opec – e, pertanto, ogni variazione significativa della sua produzione e delle sue esportazioni ha più che evidenti riflessi sul già instabile mercato mondiale del greggio.
Anche per questo, per il momento almeno, l’arroganza di Trump non s’è spinta fino al punto di non cogliere le conseguenze, innanzitutto per la stessa economia statunitense, di un’escalation incontrollata, dall’esito non necessariamente positivo per gli Usa, del conflitto aperto con Caracas, tanto che non ha ancora bloccato l’export verso il Venezuela dei prodotti americani per diluire il denso petrolio venezuelano, né l’import verso le raffinerie statunitensi.
A dispetto dei modi spicci con cui la Casa bianca, e ancor più Mike Pompeo, hanno benedetto l’autonomina a presidente di Juan Guaidó e hanno liquidato come illegittime le ineccepibili misure di reazione decise da Maduro nei confronti della rappresentanza diplomatica americana, è evidente che Trump si tiene pronto sia allo scenario di un rapido precipitare della situazione, con l’eliminazione di Maduro, sia allo scenario opposto, l’ennesima prova, da parte di Maduro, di una capacità di tenuta e di risposta, grazie al sostegno di una parte significativa della popolazione.
Trump è molto più che uno spettatore interessato. L’America e i suoi alleati della regione si stanno dando parecchio da fare perché prevalga il primo scenario.
Che si vada verso una lunga e cruenta guerra civile, e non verso un rapido esito della prova di forza, è il terzo scenario possibile. Forse il più probabile. Con effetti drammatici su un paese stremato, ma anche con enormi conseguenze nella regione e nel mondo. Oltre ai riflessi sul mercato energetico e ai rimbalzi sull’economia mondiale, la lacerazione di un paese chiave come il Venezuela avrebbe ripercussioni domino nel continente latino, fino ad arrivare agli stessi Stati Uniti.
 Gli Usa nel 2017 hanno importato 674.000 barili al giorno di petrolio dal Venezuela, il 46% dell’export totale – fonte eia.gov
Assurdamente Trump cerca con infantile e crudele ottusità di contenere le migrazioni provenienti dall’America latina con stupidi quanto inutili muri, e intanto cerca di delegittimare l’opposizione al Congresso e trova sponda in personaggi come Bolsonaro e Macri nel tentativo di ripristinare in America latina vecchie e odiose forme autoritarie e liberiste, con l’eliminazione politica e, se necessario fisica, di quel che resta delle leadership progressiste. Operazione indecente politicamente che produrrà affamati e disperati disposti a tutto per emigrare. Dove? Negli Usa, naturalmente.
Aprendo a Cuba, Barack Obama aveva dato il segnale di un inizio di cambiamento, nella direzione di un superamento della condizione del continente latino-americano come «cortile di casa». Proprio nei confronti di Cuba, poi nei confronti del Messico, quindi verso il Nicaragua e ora verso il Venezuela si è diretta l’opera di disfacimento del faticoso lavoro diplomatico condotto da Obama.
La novità messicana della presidenza di López Obrador “Amlo” indica che la vis distruttiva di Donal Trump trova considerevoli ostacoli. Mentre la resilienza di Cuba è straordinaria. Ora si vedrà a Caracas.
È importante che il tentativo di rovesciare Nicolás Maduro non riesca, non solo per il Venezuela ma per la tenuta di quel che resta in piedi di un’America latina padrona del suo destino.

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mercoledì 2 gennaio 2019

Buon compleanno Cuba di Fabrizio Casari


Compie sessant’anni la Rivoluzione Cubana. Sessant’anni orsono, guerriglieri chiamati Barbudos divennero liberatori. Un’isola che era diventata un bordello a cielo aperto, con le fiches che valevano più degli esseri umani, ascoltò la deliziosa sinfonia del passo guerrigliero, che superava con la velocità di cui a volte si picca la storia, un’epoca di ingiustizia, violenza, sfruttamento ed ignominia.
Cuba era un’isola cubana diventata proprietà statunitense, gestita da Fulgencio Batista, un sergentino ignorante quanto sanguinolento, messo sul trono dai feudatari di Miami. Ma Fidel Castro, avvocato cubano dall’oratoria brillante e  dalla visione profonda, decise di fare della libertà di Cuba la sua unica causa e condannò lo sbirro alla sconfitta eterna.
Sessant’anni fa, con l’arrivo delle truppe guerrigliere, L’Avana divenne una città cubana. I grattacieli delle banche si apprestarono a divenire ospedali e le strade dove si respirava terrore divennero residenza dei giusti. Gli architetti della rinascita vestivano verde olivo, portavano barbe incolte e sfrontatezza, sprezzo per il pericolo e acume tattico.
Gli occhi del mondo dovettero posarsi sulla bellezza autentica, quella che disegna i volti degli ultimi quando diventano i primi. Persino il vento decise di cambiare direzione e dalla Sierra Maestra iniziò a soffiare forte verso Miami, condannata a divenire immondezzaio della storia, incubatrice degli avanzi di ogni tirannia, fogna contenente ogni terrore.
Mafiosi, ladri e biscazzieri dovettero fuggire in fretta dall’Avana, divenendo così i primi balseros. Le strade fecero luce, i sorrisi illuminarono l’incedere liberatore. Persino negli anfratti del porto l’odore che si respirava era diverso. La capitale, tornata cubana, espettorava, i suoi polmoni si aprivano all’aria nuova proveniente dalla Sierra Maestra.
Quel 1° Gennaio del 1959, Cuba divenne qualcosa più grande di se stessa: smise di essere solo un’isola e divenne sinonimo di impossibile, parafrasi di liberazione, auspicio e speranza di tutte le vittime dell’ingiustizia e dello sfruttamento ovunque sparse. Il Dio Denaro venne messo agli ordini degli uomini e delle donne divenuti Dei della ribellione, il futuro smise di essere termine proibito nelle declinazioni delle speranze. I fucili si girarono, i sadici in uniforme fuggirono o si arresero; i giusti con barbe lunghe e valori alti s’incaricarono di mettere le cose al loro posto: gli ultimi diventarono primi, perché la categoria degli ultimi veniva abolita.
A Cuba in sessanta anni sono avvenuti mutamenti dell’ordine e del disordine. Sono state ribaltate le priorità, è stato sovvertito l’ordine logico, rivoluzionati persino lo spazio e il tempo. Le persone hanno ragione delle cose e il ragionare sconfigge il pensiero debole. Un nuovo vocabolario si è imposto e l’Io si pronuncia Noi. La gente è diventata popolo e il popolo è divenuto nazione.
Da sessanta anni a Cuba il tempo litiga con le lancette degli orologi. Lui preferisce farsi scandire dalla sovranità riconquistata e difesa. La nozione delle ore è stata superata da quella del cambiamento, nessuna lancetta può stabilire il quando, ma solo il dove e il come. L’unica ora è quella legale.
Da sessant’anni immersa in un calice di passioni, dove non trova spazio il veleno del nemico, Cuba si picca di essere il primo territorio libero d’America. E’ così, lo è stato e continua ad esserlo, perché quell’isola a forma di coccodrillo, esportatrice di valori e incubatrice di sogni, resiste, cambia, vince e sferra un ghigno di cubania di fronte ai poderosi.
 Da quasi sessanta anni subisce il più criminale e lungo blocco economico e commerciale della storia, al quale ha risposto con i migliori risultati sociali del continente. Ha sopportato il terrorismo ed è divenuta bastione inespugnabile, luogo sicuro per chiunque. Ha versato sangue in Africa e in America Latina, liberando popoli e paesi e ancora non conosce l’onta della sconfitta. Produttrice di emozioni e scontri ideologici, è stata odiata e osteggiata, temuta, rispettata, tradita e amata; nulla della sua storia è rimasto sottotraccia, immunizzata da banalità e indifferenza.
Sessanta anni sono un tempo di ragione e pacatezza. Non chiudono l’ardore ma misurano la ragione. Non s’arrampicano sui fasti, preparano il da farsi. In alcuni casi sono fase di ricordi del passato e timori per il futuro. Arrivata alla sua piena maturità, Cuba non è il paradiso terrestre che qualcuno immagina, meno che mai l’inferno che l’impero delle menzogne racconta.
Cuba è semplicemente il luogo meno diseguale della terra. Quello nel quale l’uguaglianza nei diritti è sancita dalla legge e rispettata ogni giorno. Approdo sicuro per ogni ribelle, esempio e scuola di ogni insurrezione, università vivente di sovranità e indipendenza, Cuba esporta medici e vaccini, saggezza e sacrifici. E’ sinonimo di resistenza, è luogo dove tutto è in movimento. Un movimento indirizzato verso il perfezionamento di quanto costruito, verso l’ottimizzazione di quanto realizzato, perché le nuove sfide hanno bisogno di nuove sfrontatezze.
Sessant’anni dopo la sua vittoria, Cuba si regala la sua nuova Costituzione. Un manifesto di principi e di valori scritto da milioni di cubani che scandiscono nella Carta Magna della loro nazione l’idea di un paese diverso dagli altri, destinato dalla storia ad aprire cammini inesplorati.
Fidel, il suo Comandante in Capo, statista fra i più grandi, capo di popolo tra i più amati, Presidente tra i più rispettati e avversario tra i più temuti, pur se nullatenente in vita ha lasciato una eredità immensa: Cuba è socialista e il socialismo è per sempre, perché rivoluzionare il mondo è l’unico modo di salvarlo.
da  www.altrenotizie.org
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