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martedì 7 novembre 2017

Cento anni fa



da altrenotizie.org - di Fabrizio Casari
Cento anni fa, mentre con la più sanguinosa delle guerre le monarchie europee si contendevano il dominio dell’Europa, la Rivoluzione Bolscevica chiudeva per sempre la storia delle monarchie, inaugurando il XX secolo con la più grande storia di ribellione ed emancipazione mai conosciuta.
Guidata da Vladimir Ilic Ulianov Lenin, la Rivoluzione Bolscevica cambiava la geografia sociale, politica ed economica, fino a quel momento destinata solo a favorire l’aristocrazia e la Russia si tirava fuori dalla prima guerra mondiale. Irrompeva nel libro della storia la classe proletaria, assumevano un volto e un nome i contadini e gli operai non più disponibili ad assoggettarsi al regime zarista.
D’improvviso, una massa di sfruttati ed impotenti si fece classe. Mise fine ad un regime feudale, prese in mano le redini di un paese immenso ed aprì al mondo intero una diversa prospettiva di liberazione dalla tirannide prima e di emancipazione delle classi lavoratrici poi. Da dominati divennero governo. Il grande disordine divenne l’Ordine Nuovo. L’unità di misura della politica apprese la scienza delle trasformazioni radicali che, sebbene datesi in un solo paese, si riflettevano sull’intero pianeta.
La Rivoluzione Bolscevica, forgiatasi sulla idealità marxista, smentì le previsioni del filosofo di Treviri, che vedeva nella borghesia la classe rivoluzionaria per eccellenza e che, per questo, immaginò lo sviluppo dei processi rivoluzionari nei paesi industrialmente più avanzati, Stati Uniti e Inghilterra in primo luogo. E invece in Russia, come successivamente in Cina e nei processi di liberazione in Asia, in America Latina e persino in Africa, fu il proletariato la classe protagonista dei processi rivoluzionari e che avrebbe permesso, con la sua liberazione, quella della società in generale.
Con i suoi limiti, con i suoi errori e con le sue rettifiche, la rivoluzione russa fu lo spartiacque della storia, l’inizio di un'altra lettura del Novecento, il secolo che cambiò i paradigmi dell’esistente insegnando che un mondo diverso era possibile. Il nascente capitalismo moderno, che si erigeva sulle macerie delle monarchie e prosperava nel colonialismo, da quel momento in poi avrebbe dovuto misurarsi con un modello nuovo, che chiamava a raccolta le ragioni dei dimenticati, ergeva a metro di misura il bene collettivo e proponeva un nuovo assetto nella storia dell’umanità.
L’edificazione della nuova Russia, divenuta Unione Sovietica nella riunificazione di una nazione grande come un continente e nell’abolizione delle differenze tra le etnie contenute al suo interno, dovette affrontare il mostro nazifascista che le borghesie europee avevano concepito prima e legittimato poi. Il nazifascismo, infatti, era stata la risposta disperata di queste, che nell’Unione Sovietica vedevano – giustamente - una minaccia mortale al loro dominio, all’ordine stabilito delle classi dominanti.
L’Unione Sovietica fu anche scuola di resistenza, quando per difendersi e difendere l’Europa intera dal terrore nazifascista offrì alla storia 22 milioni di morti per piegare il Terzo Reich e il fascismo italiano. La bandiera Sovietica che sventolò sul Reichstag di Berlino annunciò la fine dell’orrore, permise la liberazione di un intero continente e l’inizio di una nuova era per tutta l’umanità.
Successivamente alla vittoria, l’esempio dell’Unione Sovietica spinse il proletariato europeo ad un ruolo di protagonista, al punto che il capitalismo uscito dal secondo conflitto mondiale dovette cercare un modello di dominio calibrato sulle concessioni di diritti ai lavoratori divenute inevitabili; il sacrificio sovietico contro il nazifascismo non aveva solo liberato l’Europa dalla tirannide ma anche spinto su un piano molto più avanzato la lotta per le rivendicazioni di diritti sociali in ogni paese del vecchio continente.
L’Unione Sovietica non si limitò, però, a fungere da esempio. Nonostante avesse firmato gli accordi di Yalta, che prevedevano la divisione del mondo in sfere d’influenza, Mosca intervenne ad aiutare, in ogni parte del pianeta, le lotte per l’indipendenza dei popoli oppressi dal colonialismo e dalle dittature militari decise e sostenute dal capitalismo internazionale a garanzia dei suoi interessi.

La decolonizzazione in Africa, così come le lotte di liberazione in America Latina, videro il sostegno dell’Unione Sovietica. La rivoluzione cubana poté contare per decenni sull’aiuto sovietico e la stessa Rivoluzione Sandinista, in Nicaragua, ricevette ogni sostegno da Mosca e dall’intero blocco dell’Europa Orientale, decisivo nella difesa del paese aggredito dagli Stati Uniti di Reagan e Bush.
Oggi ricorrono i cento anni da quel 1917 che cambiò il destino della Russia e la storia del mondo intero. Quella dell’Unione Sovietica, durata oltre settant’anni, fu non priva di passaggi controversi e di vere e proprie pagine drammatiche. Ma l’ostacolo più importante al processo venne da un assetto interno a forte vocazione burocratica ed accentratrice, poco sensibile alle esigenze di rinnovamento e incardinato nel confronto militare con l’Occidente (che sapeva di dissanguare l’Urss con la continua corsa al riarmo, conscia di una superiorità tecnologica e finanziaria decisive per prevalere nello scontro). Il sistema sovietico non seppe autoriformarsi.
Sebbene per la sua composizione territoriale fu in qualche modo costretta ad un modello sviluppista, l'Urss non seppe costruire in parallelo un cammino alternativo all’industrializzazione pesante nella sua produzione. Allo stesso tempo, sul piano politico, sclerotizzò il dispiegarsi del dibattito politico all’interno della comunità socialista e privilegiò il controllo interno sulla libertà di espressione. Con la riproposizione autoritaria dell’ortodossia ideologica esaurì progressivamente la spinta affascinante di un modello che aveva cambiato l’umanità, e non fu in grado di valorizzare le modificazioni del costume che, grazie anche al progresso tecnologico, s’imposero su scala globale.
Ma tutto il processo politico che contrassegnò la sua esistenza fu un processo di emancipazione per le classi popolari che oggi in molti rimpiangono, a cominciare dagli ex paesi Oltrecortina. La caduta dell’Urss portò con sé l'equilibrio bipolare del pianeta e il trionfo del capitalismo neoliberista, che negli ultimi venti anni ha portato il mondo del lavoro e dei diritti sociali vicino al collasso. Il suo affermarsi ha prodotto il punto più basso della civiltà occidentale. Il fallimento delle sue ricette per i popoli non è però un errore collaterale, ma la conseguenza voluta del successo per le elites. Al suo massimo grado di sviluppo incontrastato, il sistema che ha vinto ha prodotto la supremazia dei potenti e determinato un ordine economico ingiusto ed escludente che rende i poveri più poveri e i ricchi più ricchi.
Cento anni dopo quel 7 Novembre del 1917, la speranza è che non sia ancora scritta l’ultima pagina della storia e che la sinistra che verrà serva a fare di questo mondo un luogo meno ingiusto e più degno di essere vissuto.
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domenica 27 ottobre 2013

Camilo, l'héroe sonriente.

Omaggio a Camilo Cienfuegos nell'anniversario della sua scomparsa, héroe sonriente perché nelle tante fotografie e ritratti appare sempre sorridente e gioviale, è forse l'unico eroe più popolare di Ernesto "Che" Guevara a Cuba. Camilo era un uomo del popolo, un habanero doc, di umili origini, nato nel quartiere popolare di l'Avana vecchia e lì tra quella gente rimane per antonomasia il più grande ed indimenticato eroe cubano di tutti i tempi (più del Che e dello stesso Josè Martì). Mentre Che Guevara ha avuto un'indiscutibile "internazionalizzazione" della sua figura, del suo pensiero, delle sue idee, Camilo Cienfuegos ha attecchito popolarmente, è rimasto un eroe su scala nazionale: la imagen del pueblo. Ogni guerrigliero latino americano potrebbe facilmente riconoscersi nella sua figura. Alto, bruno, magro perennemente mostratoci con una barba bruna ed un cappello a metà strada tra il cow-boy statunitense ed il guajiro caraibico e con gli occhi protesi ad una genuina risata. Aveva ventiquattro anni quando giunge in Messico per partecipare alla spedizione del Granma. E' un'età che corrisponde a quella media dei suoi compagni: Camilo è più giovane di Fidel e del Che, ma più vecchio di Raul Castro e di Frank Paìs. Due anni più tardi, trasformato in barbuto e in leggendario capo guerrigliero, entrerà all'Avana alla testa delle colonne dell'esercito ribelle, al fianco del Che. All'inizio Camilo Cienfuegos è un giovane come tanti altri, mosso dal patriottismo e dallo spirito di avventura. La lotta farà di lui un leader. Certi particolari sulla sua biografia e gli aneddoti che corrono sul suo conto ci dicono però qualche cosa di più. Un mattino all'alba, poco dopo il golpe di Fulgencio Batista, in casa dei genitori, con i quali all'epoca Camilo viveva, era comparso un cane randagio e Camilo lo aveva adottato, come prima altri cani, battezzandolo Fulgencio: gli era parso che fosse il nome più adatto per un bastardo. Gli è che, in quella casa, la politica era pane quotidiano. Il padre di Camilo, Ramòn, uno spagnolo, era stato attivista sindacale della Uniòn de Operarios Sastres (Unione dei lavoratori di sartoria) e qualche anno prima aveva pubblicato un manifesto dal titolo incendiario La rivoluciòn rusa si extenderà por el mundo (La rivoluzione russa si estenderà a tutto il mondo). In seguito, durante la guerra civile spagnola, Camilo, ancora bambino, aveva spesso accompagnato il padre durante le sue collette per la raccolta di fondi.Buon narratore, amante degli animali, audace e pronto ad affrontare qualsiasi rischio, animato da un profondo senso dell'amicizia, Camilo mancava però di una virtù: la disciplina. All'epoca, tuttavia, poteva sostituirla con lo spirito d'avventura. Operaio come suo padre, un giorno aveva deciso di andare negli Stati Uniti. Lì aveva fatto i lavori più svariati, nessuno dei quali stabile. Fu proprio in quel periodo che Camilo sviluppò un grande senso dell'ironia e dell'autoironia, iniziò a firmare le sue missive ai familiari ed agli amici con un sarcastico "K100", che in spagnolo si pronuncia "Ca Cien". Ma un bel giorno il cubano emigrato avverte "un gelo da spaccare il cuore a chiunque", e ritorna in patria. La distanza gli ha permesso di rendersi conto ,dei mutamenti intervenuti. E' partito con Batista al potere; tornato, ritrovava ancora Batista al suo posto: con la differenza che l'ex sergente ha ormai dato fondo a tutti i suoi trucchi demagogici, mostrando apertamente il ceffo del dittatore. "Sono certo, - scrive Camilo a un amico nel 1956 - che se tu fossi a Cuba resteresti sbalordito delle cose che qui avvengono. I soprusi sono tali, che solo chi ne é testimone può convincersi della loro realtà". La lotta per le strade, le manifestazioni che nelle città si sono trasformate in aperta protesta lo coinvolgono, e Camilo finisce una volta in carcere e un'altra all'ospedale. In quel torno di tempo, gli capita un'esperienza che non dimenticherà mai più, e la riferisce in una sua lettera: "Fu quando il mio vecchio, travolto dalla tensione e dall'emozione, levò la benda macchiata di sangue con cui mi aveva tamponato la ferita, e disse: "E' il sangue di mio figlio, ma é sangue versato per la rivoluzione". Il padre e il figlio, che un tempo avevano raccolto, fianco a fianco, fondi per la guerra civile spagnola, avrebbero ancora proceduto assieme. La tradizione rivoluzionaria non era andata perduta: al pari di tanti altri giovani cubani della sua generazione, Camilo si era assunto la responsabilità di portarla avanti. Fu scelto come ultimo (o forse penultimo) membro della spedizione del "Granma" da Fidel Castro. Camilo sarà poi tra i pochissimi sopravvissuti all'imboscata batistiana di Alegria del Pio e si distinguerà per le sue notevoli doti di coraggio e abnegazione alla causa della guerriglia sulla Sierra Maestra così da essere nominato Comandante di una delle più importanti colonne della guerriglia che libereranno la regione centrale dell'isola caraibica. L'eroe sorridente esprimerà il suo più alto capolavoro a Yaguacay, nel versante nord della parte centrale di Cuba, dove al comando di un manipolo di uomini costringerà alla resa lo stratega batistiano Jabon Lee ed i suoi soldati asserragliati nel famoso "cuartel". Questa superlativa azione congiuntamente con la straordinaria impresa di Che Guevara a Santa Clara costringerà Batista alla capitolazione definitiva e determinerà quindi l'ingresso vittorioso dei barbudos ad ovest sino a l'Avana. Non gli fu però concesso di partecipare a lungo, dopo la vittoria sulla dittatura, alla costruzione della sua nuova patria. Il 28 ottobre 1959, a soli 27 anni, Camilo Cienfuegos morì mentre tornava su di un piccolo aereo da Camaguey dove era andato per sedare una rivolta guidata da Hubert Matos. L'aereo incappò in un fortunale e scomparve in mare. Il suo cadavere non venne mai trovato e ancora oggi, il 28 ottobre, in ogni parte di Cuba la gente va in riva al mare o su un fiume e vi getta "una flora para Camilo", un fiore per Camilo. Ma egli continua a vivere nella memoria di un popolo che si riconosce pienamente in colui che, semplice lavoratore, fu esaltato dalla rivoluzione a capo leggendario di un popolo che ha fatto proprio il motto: "C'é stato un Camilo, ci saranno molti Camilo". Addirittura Che Guevara chiamerà uno dei suoi figli Camilo. A Yaguacay oggi vi è uno stupendo monumento dedicato all'eroe sorridente, proprio di fronte al mitico "cuartel" e sotto la statua bronzea di Camilo è situato un museo dedicato all'eroe habanero. In questo museo sono contenuti molti reperti e documenti, sicuramente quelli più interessanti sono costituiti dalla corrispondenza tra Che Guevara e Camilo, dove emerge un grande rispetto reciproco e soprattutto l'aspetto ironico ed ottimista di Camilo che unico tra i baburdos poteva permettersi di sfottere il severissimo comandante Guevara firmandosi con degli "tu eterno chicharron" [chicharron - cicciolino, è un termine confidenziale usato per carinerie intime tra innamorati Ndt].
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venerdì 7 agosto 2009

Thomas Sankara.


Idealista, genuino, irriverente, sognatore. Sono tanti gli aggettivi usati per parlare di Thomas Sankara, il presidente-ribelle del Burkina Faso, assassinato nel 1987. Oggi la figura di questo giovane rivoluzionario sopravvive nella memoria di milioni di africani. Scopriamo il perché nel 3° appuntamento di "utopia", la nostra operazione sulla memoria.

Thomas Sankara è stato l’eroe della rivoluzione popolare che nel 1983 cambiò i destini dell’Alto Volta, un povero paese saheliano, poi ribattezzato col nome di Burkina Faso (nella lingua locale significa “terra degli uomini liberi e integri”).
Giovane ufficiale dell’esercito, ambizioso e determinato, Sankara si impadronì del potere con un golpe. All’età di soli 34 anni si trovò a governare una nazione assediata dalla desertificazione e dalla carestia, che da decenni conviveva con colpi di stato, scioperi selvaggi e una miseria dilagante. In soli quattro anni di governo, Sankara riuscì a realizzare riforme sociali epocali e cambiò il volto del Paese.
Sankara era un idealista ma pure un uomo di azione, un insaziabile stacanovista. Si dedicava solo a programmi ambiziosi e intensivi: in meno di tre settimane, il suo Governo riuscì a far vaccinare contro il morbillo, la meningite e la febbre gialla il 60% dei bambini del paese (secondo l’Unicef fu una delle più belle imprese mai realizzate in Africa). In ogni villaggio Sankara fece costruire nuove scuole (in quattro anni la percentuale di bambini scolarizzati del Burkina salì di un terzo), ambulatori, piccoli dispensari e magazzini per i raccolti.
Molta gente si offriva volontaria per realizzare i programmi della rivoluzione, ma Sankara non esitava ad usare le maniere forti pur di centrare i suoi obiettivi: obbligò i capi-villaggio a seguire corsi di formazione per infermieri di primo soccorso. Impose una campagna di alfabetizzazione rapida nelle campagne (tutti, per 50 giorni consecutivi, furono costretti a frequentare la scuola) ed arrivò persino a promulgare l’obbligo di partecipare ad un’ora di ginnastica collettiva tutti i giovedì pomeriggio.
Senza peli sulla lingua
Sankara gestì il potere in modo decisamente poco convenzionale. Cercò di ridare vigore all’arretrata economia rurale, nella speranza di far raggiungere al Paese l’autosufficienza alimentare. Ma rifiutò polemicamente gli aiuti internazionali e le politiche di aggiustamento promosse dal Fondo monetario. «L’Africa si salverà da sola. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno sta nella nostra terra e nelle nostre mani» usava ripetere nei suoi comizi.
Non contento, Sankara scosse le cancellerie occidentali facendosi promotore di una campagna contro il debito estero contratto dai paesi africani: «Dopo essere stati schiavi, siamo ora schiavi finanziari. Dobbiamo avere il coraggio di dire ai creditori: siete voi ad avere ancora dei debiti, tutto il sangue preso all’Africa».
A preoccupare le potenze occidentali erano anche le “amicizie” di Sankara: il presidente burkinabè frequentava “gente pericolosa” come Gheddafi, Fidel Castro, Menghistu e il mozambicano Samora Machel. La Francia, in particolare, temeva che il proselitismo di questo giovane rivoluzionario potesse contribuire all’erosione dell’influenza politica ed economica di Parigi in Africa.
Un presidente in bicicletta
La diplomazia e la realpolitik non erano il suo forte (il padre-fondatore della Costa d’Avorio, Houphouet-Boigny, lo chiamava scherzosamente «il figlio ribelle») ma, da umile e populista qual era, viveva per primo il modello di vita proposto alla sua gente. Occorreva che tutti facessero dei sacrifici e lui non si tirava indietro.
Rifiutava di vivere al di sopra delle possibilità della gente comune, per le vie della capitale Ouagadougou lo si vedeva spesso girare in bicicletta. Per abbattere i privilegi della classe dirigente fece vendere le auto blu ministeriali, sostituendole con semplici utilitarie (il presidente guidava personalmente una Renault 5).
Nel 1985 licenziò gran parte dei membri del suo gabinetto e li inviò a lavorare nelle cooperative agricole, nello stesso anno decise un taglio del 15% dei salari del governo. Impose una radicale politica di austerità a tutti i funzionari pubblici, compreso a se stesso.
La frattura col passato
In effetti la rivoluzione richiedeva sacrifici. Tutti erano coinvolti nei progetti contro la desertificazione: ogni straniero che arrivava in Burkina era obbligato a piantare un albero. Studenti, operai, ministri e persino diplomatici europei furono “inviati” (un termine eufemistico: il regime non sopportava i dissidenti) a dare una mano per la costruzione della ferrovia che avrebbe dovuto collegare la capitale Ouagadougou alla città di Tambao, dove si trovano ricchi giacimenti di manganese e di calcare (gli economisti avevano calcolato che il progetto non avrebbe mai potuto produrre reddito e ancora oggi i lavori non sono stati ultimati).
Sankara era anche questo. Non tutti lo prendevano sul serio, soprattutto all’estero, ritenendolo ingenuo e sognatore. Gli oppositori politici lo accusavano di autoritarismo e di demagogia. Ma il suo fascino era contagioso: soprattutto i giovani vedevano in lui un nuovo leader, non assetato di potere, saggio e idealista. Sul piano sociale e culturale Sankara creò una frattura netta col passato. Si oppose fermamente a quella sorta di feudalesimo rurale che permetteva ai capi-villaggio di sfruttare i contadini. Puntò con forza sull’emancipazione delle donne. Si occupò di moralizzare la vita pubblica e lottò attivamente contro la prostituzione e la corruzione.
A livello economico perseguì una politica protezionistica. Quando non indossava l’uniforme militare, Sankara vestiva il tipico abito verde della fabbrica di tessuti Faso dan Fani, fatto col cotone ruvido burkinabé (era l’uniforme imposta ai funzionari). Anche il pane veniva in parte fatto con la farina di miglio perché il mais costava troppo e doveva essere importato. Certo non fu facile, ma in quattro anni il presidente cambiò il volto del Paese. E il Burkina Faso divenne fiero della propria diversità.
Ucciso dagli “amici” più cari
Thomas Sankara venne assassinato nel 1987 durante un colpo di stato organizzato da alcuni ufficiali dell’esercito, tutti vecchi amici del presidente. La nuova giunta militare venne guidata dal capitano Blaise Compaoré (l’attuale presidente del Burkina Faso), un tempo compagno di lotta di Sankara, che cercò invano di screditare l’immagine dell’ex leader con un’intensa propaganda destinata solo a far rimpiangere il precedente regime. Sotto il governo di Sankara l’economia del Burkina ritrovò vigore, i conti pubblici vennero gestiti con oculatezza e la corruzione fu ridotta a livelli bassissimi (un caso quasi unico in Africa). Tutti i principali indici della qualità della vita - mortalità infantile, età media, scolarizzazione, ecc. - migliorarono. Ma soprattutto la popolazione burkinabé sviluppò un genuino senso di patriottismo che permise di superare le divisioni tribali e di guardare al futuro con rinnovato ottimismo .
Un’eredità ingombrante
A quasi ventidue anni dalla sua morte, la figura di Thomas Sankara sopravvive nella memoria di milioni di africani: ogni 15 ottobre, nell’anniversario del colpo di stato che gli tolse il potere, una grande folla rende omaggio alla sua tomba a Ouagadougou. A tributargli gli onori non sono solo i nostalgici che hanno vissuto la sua rivoluzione, ma anche tanti giovani che lo hanno conosciuto coi racconti dei genitori e i libri di storia. A tutt’oggi rimangono numerosi interrogativi circa i motivi e i mandanti del suo omicidio.
Sankara si era procurato diversi nemici a cui dava molto fastidio. Pur godendo dell’appoggio delle masse, entrò sempre più in contrasto con alcuni gruppi di potere molto influenti fra cui i sindacati, i proprietari terrieri, i capi tradizionali.
Aspri dissidi si erano creati anche con alcuni paesi occidentali, specie gli Stati Uniti e la Francia, rispetto ai quali il Burkina Faso era stato per lungo tempo in una posizione di dipendenza economica e di sudditanza politica. Sankara era solo, troppo debole per avere la meglio su tutti. Ma l’immagine di questo giovane rivoluzionario che osò sfidare i grandi del mondo, e che seppe incarnare le speranze di liberazione di un intero continente, resta un esempio di integrità e di coraggio che riempie di orgoglio milioni di africani.
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domenica 31 maggio 2009

Chico Mendes.


Proseguiamo la piccola operazione sulla memoria perché, come dicevamo, qualche volta dimenticare è una colpa.
Dopo il peruviano Nestor Cerpa Cartolini ricordiamo un altro figlio dell’America Latina che ha perso la vita combattendo per difendere i diritti dei più umili. Il ‘Guerrigliero eroico’ a cui dedichiamo un pensiero questo mese è Chico Mendes.

Nacque nel 1944 al Seringal Cachoeira, in Acre, da una famiglia di discendenti di raccoglitori di caucciu'. Fin da giovane si interesso' a far valere i diritti alle loro terre degli estrattori di gomma. Nel 1970 il piano di integrazione nazionale (PNI), un ambizioso piano del governo per domare l'Amazzonia , attrasse costruttori, allevatori di bestiame, compagnie di legname e coloni in Acre. Nel 1975, Chico Mendes organizzo' un sindacato di lavoratori rurali per difendersi dalle violente intimidazioni e dalle occupazioni della terra praticati dai nuovi arrivati che stavano distruggendo la foresta e quindi togliendo ai lavoratori rurali i loro mezzi di sostentamento.
Mendes organizzo' numerosi gruppi di lavoratori rurali per formare blocchi umani non violenti intorno alle aree di foresta minacciate dalla distruzione e presto attrasse la collera dei costruttori, abituati a risolvere gli intoppi sia grazie a politicanti corrotti sia assoldando pistoleri per eliminare gli ostacoli umani. Queste azioni di contrasto salvarono effettivamente migliaia di ettari di foresta, dichiarati reservas extrativistas dove lavoratori rurali poterono continuare a raccogliere e lavorare il lattice di gomma e a raccogliere frutti , noci e fibre vegetali.
L'interesse internazionale si concentro' su Mendes come difensore della foresta, ma il suo ruolo come leader lo fece anche diventare l'obiettivo degli oppositori frustrati ed infuriati. Nei primi giorni di dicembre 1988, si attivo' per far divenire il suo paese natale, il Serigal Cachoeira, una riserva estrattivista, sfidando il proprietario terriero ed allevatore locale, Darly Alves da Silva, che reclamava la proprieta' della terra. Il 22 dicembre, Chico Mendes che aveva ricevuto diverse minacce di morte lascio' per pochi istanti la sua guardia del corpo. Fu colpito a breve distanza nella veranda posteriore della sua casa da colpi partiti dai cespugli e mori' subito dopo.
Per almeno due anni, ci furono diverse speculazioni sugli assassini; nonostante fossero ben noti, furono considerati fuori dalla portata legale per le loro connessioni con influenti proprietari terrieri e figure ufficiali corrotte della regione - un compromesso comune nelle terre di frontiera del Brasile. Forti pressioni nazionali ed internazionali riuscirono a far arrivare il caso in tribunale. Nel dicembre del 1990, Darly Alves da Silva ricevette una condanna a 19 anni di prigione per essere stato il mandante dell'omicidio; suo figlio, Darci, ricevette la stessa condanna per esserne stato l'esecutore materiale.
I lavoratori rurali , l'opinione mondiale e il governo brasiliano, che necessitava di mostrare ai brasiliani ed al resto del mondo un minimo di controllo sulla regione amazzonica, ottennero ampia soddisfazione dal verdetto. Ma quando i media spostarono i loro riflettori, gli omicidi continuarono. Dagli ultimi anni del '70, di centinaia di omicidi di leaders sindacali e protestanti per i diritti della terra, l'unico che fu investigato completamente e porto' ad una condanna fu quello di Chico Mendes.
La condanna a Darly Alves da Silva fu annullata nel febbraio del 1992 a Rio Branco dalla corte d'appello statale.
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martedì 28 aprile 2009

Nestor Cerpa Cartolini.


Questa è una piccola operazione sulla memoria, perché qualche volta dimenticare è una colpa.
Ci sono stati uomini che, come il 'CHE', hanno perso la vita combattendo per i loro ideali di giustizia ed eguaglianza nel tentativo di costruire un mondo migliore. Purtroppo, secondo noi, il loro sacrificio non è ricordato come merita. Abbiamo deciso quindi di dedicare una pagina mensile alla memoria di questi 'Guerriglieri eroici'. E tu ti ricordi di Nestor Cerpa Cartolini?

Si faceva chiamare Evaristo, ma il suo vero nome era Nestor, Nestor Cerpa Cartolini, per esser precisi. Sono passati dodici anni dalla sua morte. Il comandante Evaristo fu ucciso insieme ai suoi compagni il 22 Aprile del 1997 da unità speciali del governo peruviano.
Con un gruppo di tredici fidati compagni, il 17 dicembre 1996, alle 20,25 ora locale, il combattente del Movimento Rivoluzionario Tupac Amaru, MRTA, assaltò la residenza dell’ambasciatore giapponese a Lima, durante una sontuosa festa affollata di personalità locali ed internazionali: politici, diplomatici accreditati in Perù, militari, imprenditori. Lo scopo dell’azione fu sintetizzato nel loro primo comunicato:
La direzione nazionale del Movimento Rivoluzionario Tupac Amaru si rivolge al popolo peruviano per rendere noto che il giorno martedì 17 dicembre alle ore 20,25 la Unità delle Forze Speciali "Edgard Sanchez" della nostra organizzazione, ha occupato militarmente la residenza dell'ambasciatore del Giappone e ha preso come prigionieri diverse personalità politiche, imprenditoriali e membri del corpo diplomatico accreditati in Perù.
Abbiamo denominato questa operazione: " Oscar Torre Condesu " con la parola d'ordine "rompendo il silenzio, il popolo li vuole liberi", questa operazione e' incaricata dal comandante dell'MRTA HEMIGIDIO HUERTA LOAIZA. Rendiamo noto che dall’occupazione militare della residenza dell'ambasciatore giapponese in Perù si sono prese tutte le precauzioni del caso per rispettare l'integrità fisica e morale delle personalità catturate. Quest’occupazione militare è stata realizzata come protesta per l'ingerenza del governo Giapponese nella vita politica del nostro paese, avallando in tutti i momenti i metodi di violazione dei diritti umani applicati dal governo del signor Fujimori, cosi come la sua politica economica che ha prodotto miseria e fame per la maggioranza del popolo peruviano.
Riaffermiamo che ci siamo trovati costretti a queste misure estreme per preservare la vita di decine di militanti e dirigenti della nostra organizzazione che sono prigionieri in condizioni inumane e sottoposti ad una politica carceraria che cerca il loro annichilimento fisico e mentale, rinchiusi in veri e proprie "carceri tombe " cosi come confermato dal sig. Alberto Fujimori con le seguenti parole: " là imputridiranno e usciranno solo morti ", mostrando una persecuzione irrazionale contro coloro che lottano e che si sono alzati in armi lottando per il benessere del nostro popolo.
In questo senso riaffermiamo il totale rispetto dell'integrità fisica delle personalità catturate e che verranno liberati solamente quando il governo acconsentirà alle seguenti richieste:
1) Impegno a cambiare direzione della politica economica verso un modello volto al benessere di tutti.
2) La liberazione di tutti i prigionieri appartenenti all'MRTA e accusati di appartenere alla nostra organizzazione.
3) Trasferimento del commando intervenuto nella residenza dell'ambasciatore giapponese insieme con tutti i compagni prigionieri dell'MRTA verso la selva centrale. Come garanti sarà inclusa parte delle personalità catturate e una volta nella zona guerrigliera saranno liberati.
4) Pagamento di una tassa di guerra.
L'MRTA e' stata sempre una organizzazione disposta a proposte di dialogo incontrando però solamente il rifiuto e l'inganno del governo. Deve essere chiaro a tutti che qualsiasi soluzione militare che ponga in pericolo di vita le personalità catturate sarà di assoluta responsabilità del governo, così come qualsiasi altro comportamento cui ci costringa il governo se non accetterà le nostre proposte.

Nestor era buono, non avrebbe mai torto un capello a nessuno, e infatti non lo fece. E nessuno degli ostaggi liberati dichiarò di aver mai avuto paura di lui, paura di essere ucciso. I combattenti del MRTA rispettavano la vita. Non si poteva dire altrettanto di “ el chino”, il presidente del Perù Alberto Fujimori. Dietro suo ordine il commando di “Tupamaros” fu trucidato praticamente a sangue freddo, come testimoniarono alcuni degli ostaggi che assistettero al massacro. Le feroci teste di cuoio spararono su alcuni membri del commando che avevano deposto le armi e avevano le braccia alzate, mentre altri miracolosamente sopravvissuti furono trucidati poco più tardi ed i loro corpi massacrati.
Il presidente Fujimori e la polizia ingannarono le famiglie dei guerriglieri uccisi e non permisero a nessuno dei familiari vedere i corpi martoriati. Le salme furono seppellite in gran segreto in cimiteri periferici, lontano dagli occhi dei peruviani per i quali avevano combattuto. Solo alla zia di Nestor, sorella della madre, fu concesso di vedere e ricomporre la salma del nipote. Lei raccontò di aver rinvenuto chiari segni di strangolamento e che il viso era spappolato da trentuno colpi di arma da fuoco. Il comandante Evaristo fu seppellito anch’egli come i suoi compagni e le autorità proibirono a chiunque di visitare la sua tomba. La madre di Nestor Cerpa Cartolini non vedeva suo figlio dal 1984, data in cui il guerrigliero decise di entrare in clandestinità. Insieme alla sorella di Nestor furono costrette a riparare in Francia, a Nantes, dove si trovavano al momento dell'assalto all'ambasciata. Lei, e sua figlia dopo di lei, stanno ancora chiedendo giustizia. Leggi tutto...