di Fabrizio Poggi - il manifesto
Il 9 febbraio 1946, nove mesi dopo la fine della Seconda
guerra mondiale, Josif Stalin ricordava
come quella fosse «stata la più crudele di tutte le guerre combattute nel corso
della storia della nostra patria». Ma, aggiungeva, non era «stata soltanto una
maledizione. Essa è stata anche una grande scuola», che «ha sottoposto a una
specie di esame il nostro regime sovietico, il nostro Stato, il nostro governo,
il nostro partito comunista» dimostrando la loro «piena vitalità».
La guerra si era conclusa con la capitolazione senza condizioni
della Germania hitleriana, sottoscritta alla mezzanotte dell’8 maggio 1945.
Settant’anni dopo non ci sono più né regime sovietico, né
Stato plurinazionale, né partito comunista al governo. Ma la Russia di Vladmir
Putin celebra ancora quella «storica vittoria». La Russia del Partito del Presidente
e degli oligarchi (apparentemente) privati dello strapotere politico acquisito
nell’era Eltsin, sembra non aver bisogno di operare le drastiche scelte di
ottant’anni fa — industria pesante o leggera? — in economia; ma, domani, si
appresta a dare sulla Piazza Rossa una dimostrazione di come la sua industria e
le sue Forze armate si siano lasciate alle spalle lo sgretolamento degli anni
’90.
Carri armati e blindati da trasporto truppe considerati i
più avanzati a livello mondiale, missili da difesa costiera, artiglieria semovente,
bombardieri strategici, elicotteri d’assalto, sistemi di puntamento sfileranno
sulla Piazza Rossa insieme a 16.000 soldati e a un migliaio di militari stranieri,
in rappresentanza della coalizione antihitleriana. E la rappresentanza degli
alleati si limiterà a questo. Perché alla settantina di inviti spediti da Mosca
a capi di Stato e di governo per assistere alla parata della Vittoria di
quest’anno, la maggioranza dei leader di Europa occidentale, Usa, Canada,
Australia, insieme a gran parte degli odierni «satelliti» Nato in Europa, ha
risposto picche.
«Mancanza di rispetto verso i vincitori del fascismo» ha
detto ieri l’ex Presidente dell’Urss Mikhail Gorbaciov; gli «Usa risolvono i
propri compiti ideologici e politici: ecco come si spiega il loro rifiuto di
venire a Mosca». «Ignorare questa opportunità di dimostrare la loro attitudine
verso la lotta intrapresa dall’Unione Sovietica contro il fascismo diventa un
segno di disprezzo verso la gente che ha sofferto grandi perdite, verso lo sconfinato
coraggio mostrato da questa gente nel combattere la peste nera», ha dichiarato
Gorbaciov.
E per quanto riguarda la Germania – il Ministro degli esteri
Steinmeier si è incontrato però ieri con l’omologo russo Lavrov a Volgograd —
Gorbaciov ha detto che la decisione di Angela Merkel di non presenziare alla
parata del 9 maggio è il frutto delle pressioni di Washington. Merkel sarà
comunque a Mosca il giorno successivo e, insieme a Putin, deporrà una corona
alla tomba del milite ignoto. In sostanza, l’anello con cui la Nato sta tentando
di stringere la Russia – l’Ucraina ne è la punta di lancia, ma proprio ora sono
in pieno svolgimento in Estonia manovre militari su vasta scala, con la partecipazione
di Usa, Gran Bretagna e vari paesi Nato, nelle immediate vicinanze della frontiera
russa — trova il suo complemento nel boicottaggio delle celebrazioni per il 70°
della vittoria sul nazismo.
Non che la cosa stupisca più di tanto, nel quasi generale
appoggio occidentale a un potere golpista che a Kiev poggia sul sostegno anche
di gruppi neonazisti. Se il premier ucraino Jatsenjuk dichiarava mesi fa che
«l’Urss aveva invaso Ucraina e Germania», oggi gli storici ucraini includono
l’Upa (il braccio armato del movimento di Stepan Bandera che combatté a fianco
delle SS) nientemeno che nella compagine degli eserciti alleati.
E il Presidente polacco Komorovskij ha dichiarato di vedere
nella parata della Vittoria un simbolo di «instabilità e turbamento della
pace»; gli ha replicato il vice presidente della commissione esteri della Duma,
Leonid Kalashnikov: «Se non ci fossero stati i carri armati sovietici, oggi
sulla carta del mondo non ci sarebbe alcuna Polonia».
Se alle precedenti parate in occasione del 50° e 60° della
Vittoria vennero a Mosca i leader dei principali Paesi, per domani hanno assicurato
la presenza, oltre al Segretario dell’Onu Ban Ki Moon, il rappresentante
dell’Unesco, i leader di India, Vietnam, Sudafrica, Mongolia, Egitto, Cipro,
Cuba, Cina, Grecia e pochi altri.
Il Presidente bielorusso Lukashenko sarà oggi a Mosca, ma
domani presenzierà alla parata a Minsk. Altri leader, come il ceco Zeman,
saranno a Mosca, ma non sulla Piazza Rossa. Fino a ieri era incerta la presenza
di rappresentanti da Francia, Austria e, naturalmente, Italia. L’invito a
venire a Mosca, ha detto Sergej Lavrov, «non è una cartolina precetto del
distretto militare. Se qualcuno non lo può accogliere, noi lo comprendiamo.
È una grande festa del nostro popolo. Noi saremo lieti di
accogliere chiunque vorrà condividere con noi tale festa»: qualunque siano le
motivazioni, i pretesti, le «giustificazioni», addotte da chi non verrà a
Mosca, pare comunque problematico negare l’evidenza su cui poggia l’orgoglio
con cui ogni russo guarda alla data del 9 maggio.
Per quanto fondamentale sia stato il celebratissimo D-Day, a
fronteggiare i duecentomila alleati che il 6 giugno 1944 sbarcavano in Normandia,
c’erano una quindicina di divisioni germaniche: meno di centocinquantamila
uomini. Nella sola battaglia di Kursk, nel luglio 1943, si scontrarono un
milione di sovietici contro quasi altrettanti tedeschi. Nel corso di quattro
anni di guerra, dall’aggressione nazista del 22 giugno 1941, fino alla presa
del Reichstag, il 30 aprile 1945, sul fronte orientale tedeschi e loro alleati
ebbero schierate circa 230 divisioni, contro la sessantina che combattevano sul
fronte occidentale. Come non comprendere la convinzione russa su chi abbia portato
il peso maggiore nella sconfitta dell’esercito nazista?
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