giovedì 26 novembre 2020
lunedì 23 novembre 2020
Ha vinto Biden. E adesso?
da Cubadebate, ripreso dal blog di Atilio Boron.
I democratici e i repubblicani sono gli amministratori dell’impero, niente di più. Ma nella loro incarnazione fisica, personale, caratteriale, ci sono sfumature che non vanno trascurate. Fidel diceva sempre: “Dio non esiste, ma è nei dettagli”. Che Elliot Abrams, Marco Rubio, Ted Cruz, Bob Menéndez e Ileana Ross abbiano perso l’accesso diretto allo Studio Ovale che garantiva loro Donald Trump rappresenta una differenza che sarebbe assurdo sottovalutare.
È noto che entrambi i partiti hanno perpetrato ogni tipo di crimini, in tutto il mondo, e che un semplice elenco di essi richiederebbe decine di pagine. Ma in questa recente elezione si correva un rischio aggiuntivo: una conferma plebiscitaria per tenere alla Casa Bianca un criminale come Donald Trump per altri quattro anni avrebbe avuto conseguenze funeste per i nostri Paesi. Menzioniamone appena tre.
Per prima cosa, l’immediata attivazione della “carta militare” contro il Venezuela che Mike Pompeo ha preparato durante il suo tour di appena un paio di mesi fa in visita in Brasile, Colombia e Guyana (tre Paesi confinanti con la nazione bolivariana) oltre al vicino Suriname. In secondo luogo, un Trump “ricaricato” avrebbe intensificato le sanzioni e il blocco contro Cuba, Venezuela e Nicaragua e aumentato le sue pressioni contro i governi di Argentina e Messico, che i consiglieri più reazionari di Trump, per quanto si faccia fatica a crederlo, considerano “alleati” o “complici” della sovversione chavista. In terzo luogo, la rielezione del magnate di New York avrebbe rafforzato il peso regionale di Jair Bolsonaro, Iván Duque e della destra radicale in America Latina e nei Caraibi.
Questi tre “dettagli”, tutt’altro che banalità, sono più che sufficienti per ricevere con un certo sollievo la sconfitta del magnate newyorkese[i]. In sintesi: c’è stata una scelta tra il peggio e il male, e quest’ultimo ha prevalso. Sconfortante, certo, ma queste sono le “scelte” che l’impero ha sempre da offrire. Ignorare questa verità, basata su una storia di oltre duecento anni, equivale a confondere le illusioni con la realtà.
Bene, e allora: che dire di Joseph Biden? È un vecchio politico (compirà 78 anni il 20 novembre) dell’establishment conservatore statunitense, con 47 anni trascorsi nei labirinti del potere a Washington [ii]. È stato senatore dal 1972 fino a quando, nel 2009, ha giurato come vicepresidente di Barack Obama. Durante questo quasi mezzo secolo non c’è molto nel suo dossier che permetta di aspettarsi un cambiamento significativo rispetto alla politica estera di Trump, soprattutto nell’ambito sempre turbolento delle relazioni continentali.
Di quello che si vi è certezza è che per tanti anni in Senato è stato complice, beneficiario – o almeno testimone silenzioso – della più volte denunciata corruzione istituzionalizzata a Washington, dei succosi contratti e delle concessioni offerte alle società del complesso militare-industriale e, dopo il crollo dei mutui del 2008, del favoloso salvataggio concesso dal Tesoro al corrotto sistema bancario statunitense. Tutto questo avvenne sotto i suoi occhi e non ha mai mostrato disaccordo o disagio morale.
Il rinnovamento o il “nuovo inizio”, retorica alla quale i presidenti degli Stati Uniti sono così affezionati quando spodestano i loro avversari, non combacia con la relazione promiscua che Biden – allo stesso modo di Trump, ma “stando attento alla forma”! – mantiene con la borghesia imperiale.
Per esempio, la sua costosa campagna elettorale è stata facilitata da generosi finanziamenti offerti dalle grandi corporation. Un rapporto rivela che Joe Biden ha ricevuto donazioni da 44 miliardari; ma la sua vice, Kamala Harris, lo ha superato ottenendo contributi da 46 miliardari statunitensi [iii].
In termini individuali Trump ha beneficiato della generosità di Sheldon Adelson, il proprietario di un casinò di Las Vegas e, secondo The Guardian, un “ardente conservatore filo-israeliano” che ha finito per donare 183 milioni di dollari alla campagna del newyorkese[iv]. Biden, a sua volta, ha ricevuto una donazione dall’ex sindaco di New York e magnate dei media Michael Bloomberg per il valore di 107 milioni di dollari.
Come si può vedere, sembrerebbe esserci una piccola contraddizione con il principio elementare di tutte le democrazie di “un uomo/donna per un voto”. Perché, ci sono forse dubbi sul fatto che Adelson e Bloomberg potranno far sentire la loro voce più chiaramente di John e Maggie, che non sono stati in grado di donare nemmeno venti dollari a nessun candidato della fiorente democrazia statunitense? Per questo Luzzani ha ragione quando parla del “gattopardismo” di Biden.
Ci sarà, questo sì, un cambio di stile: i gesti da bullo e maleducati di Trump e compagnia (Pompeo e Bolton, in particolare) saranno dimenticati e, apparentemente, ci sarà una certa intenzione di riportare a galla il multilateralismo e di cercare compromessi mantenendo l’uso della forza come alternativa ma non come priorità assoluta.
Su questa linea, Biden ha promesso far rientrare il suo Paese negli Accordi di Parigi sul cambiamento climatico; il ritorno nell’Organizzazione Mondiale della Sanità per collaborare alla lotta contro la pandemia, e nell’Unesco, da cui Washington si era ritirata adducendo un presunto “pregiudizio anti-israeliano” di quell’organizzazione. Ma dobbiamo ricordare che gli Stati Uniti avevano smesso di finanziare l’UNESCO nel 2011, sotto la presidenza di Barack Obama e quando Joe Biden era il suo vicepresidente!
Dal Senato, Biden si è preoccupato di rafforzare il complesso militare-industriale e la stabilità del sistema finanziario nella grande crisi del 2008. Di fronte alla catastrofe sanitaria precipitata a causa del negazionismo di Trump rispetto al COVID-19, potrebbe tentare di resuscitare l’“Obamacare” come programma molto modesto di sanità pubblica. Ma ha prestato il fianco con il suo voto al Senato alle invasioni dell’Iraq e dell’Afghanistan e come vicepresidente ha avallato le operazioni militari in Libia e in Siria.
Per quanto riguarda i nostri Paesi, anche in qualità di vicepresidente di Obama, Biden ha sostenuto il colpo di Stato contro Juan Manuel Zelaya (Honduras, 2009); il tentativo di colpo di Stato contro Rafael Correa nel 2010; contro Fernando Lugo (Paraguay, 2012) e il fraudolento processo di impeachment contro Dilma Rousseff, tra il 2015 e il 2016 in Brasile. Non c’è quindi motivo di festeggiare nulla, se non la sconfitta di Trump.
Nel numero di marzo-aprile della rivista Foreign Affairs, una sorta di bibbia per l’establishment statunitense, Biden ha pubblicato un articolo nel quale anticipava quello che avrebbe fatto se fosse arrivato alla Casa Bianca. Il titolo – “Why America Must Lead Again” – non lascia dubbi sull’assoluta fedeltà di questo personaggio alla tradizione dell’“eccezionalismo” statunitense. Il mondo ha bisogno di un leader e gli Stati Uniti devono assumere di nuovo questo ruolo, assegnato nientemeno che da Dio e abbandonato da Trump, che ha sbagliato nel percorso per far sì che gli Stati Uniti “fossero di nuovo grandi” abdicando alla sua responsabilità di mantenere l’ordine internazionale e snobbando i propri alleati e amici.
Il suo programma ha tre assi: il rinnovamento e il rafforzamento della democrazia all’interno degli Stati Uniti e nel concerto internazionale; nuovi accordi commerciali per contenere la Cina e impedire che siano essa e i suoi alleati a stabilire le regole del gioco, cosa che l’impero rivendica come sua prerogativa assoluta così come è avvenuto dopo la seconda guerra mondiale; e, infine, mettere ancora una volta Washington a “capotavola” nei negoziati internazionali. Cina e Russia appaiono chiaramente come i nemici degli Stati Uniti, in linea con le tesi dominanti soprattutto a partire dai tempi di Obama.
Il linguaggio usato in alcuni passaggi è allarmante e non ha nulla di diplomatico, e ricorda alcune delle spavalderie e insolenze di Trump. Per esempio, definisce il governo di Vladimir Putin un “sistema di cleptocrazia autoritaria”, mentre afferma che Xi Jiping “era un bullo”, oltre ad accusare la Cina di aver sfacciatamente rubato i diritti di proprietà intellettuale e i beni delle grandi imprese e dei risparmiatori statunitensi.
Per quanto riguarda la democrazia promette di convocare, nel primo anno del suo mandato, una grande conferenza con i “leader amici” (che già possiamo immaginare quali saranno) per costruire una coalizione internazionale che promuova la democrazia e i diritti umani e combatta la corruzione, e che lavori in coordinamento sulla base di un’agenda comune.
Biden ritiene che una delle più grandi fratture del nostro tempo sia quella che divide le democrazie dalle diverse forme di autoritarismo. Non è la stessa cosa, ma ha una certa somiglianza con l’“Internazionale della Nuova Destra” promossa, sotto l’egida di Trump, dallo stratega di estrema destra Steve Bannon. Tra poco tempo la verità verrà alla luce e sarà possibile vedere chi sono le canaglie e chi sono gli eletti; chi sono i democratici e chi gli autoritari.
Per concludere: penso che non ci si possa aspettare nulla di buono da questa sostituzione. Il rischio maggiore è stato scongiurato e nient’altro. Nel 2008 e all’inizio del 2009, il progressismo europeo e latinoamericano hanno ceduto all’“Obama-mania” e hanno pensato, in un sfoggio di ingenuità, che un presidente afroamericano avrebbe compiuto il miracolo di trasformare la natura dell’impero e di farlo diventare il demiurgo della pace eterna che desiderava Immanuel Kant. La delusione di quelle anime belle, rigonfie di innocenza, non avrebbe potuto essere maggiore. C’è il rischio, anche se non identico, che la stessa cosa accada con Biden.
Il motivo di queste righe non è altro che metterci in guardia da una tale eventualità e dal cadere in un disarmo ideologico; e ricordare che con Trump o Biden rimaniamo in balia della voracità imperiale per le nostre risorse naturali, in un clima ideologico segnato da una paranoia che vede questo continente sul punto di “cadere nelle grinfie” della Cina o della Russia.
Il tono da “Guerra Fredda” che permea lo scritto di Biden è impossibile da nascondere. Resta, nonostante tutto, una tenue speranza: che egli ricordi e faccia riprendere, anche se solo parzialmente, la politica di Obama verso Cuba e ristabilisca le relazioni diplomatiche a livello di ambasciatori, elimini le soffocanti restrizioni in materia di viaggi, di rimesse, di commercio, di turismo e scambi culturali e, in definitiva, allenti un po’ i rigori di quel vero crimine contro l’umanità che è il blocco a cui l’Isola ribelle è stata sottoposta per 60 anni.
E, inoltre, che proceda in modo uguale nei confronti della Repubblica Bolivariana del Venezuela, ponendo fine alla figuraccia internazionale della Casa Bianca nella sua pretesa di fare di un buffone come Juan Guaidó un “presidente incaricato” di quel paese, e acconsenta a dialogare con il governo di Nicolás Maduro, abbandonando una volta per tutte la via dello scontro scelta da Trump, che, come è successo con Cuba, ha fallito miseramente.
Notas:
[i] La literatura sobre Donald Trump y su gestión en la Casa Blanca es enorme, y no podemos dar cuenta de toda ella aquí. Nos limitamos por eso a mencionar unos pocos títulos que aportan numerosas perspectivas para comprender al personaje y su papel en la política de Estados Unidos. Ver, por ejemplo, Silvina Romano, compiladora: Trumperialismo. La guerra permanente contra América Latina (Buenos Aires: Mármol Izquierdo/CELAG, 2020); Sonia Winer y Mariana Aparicio Ramírez, compiladoras: Estados Unidos: situación interna e internacional en el entorno de las elecciones y la pandemia (México: Unam/Anthropos y Siglo XXI editores, 2020); Casandra Castorena, Marco A. Gandásegui (h) y Leandro Morgenfeld, compiladores: Estados Unidos contra el mundo. Trump y la nueva geopolítica (Buenos Aires: CLACSO, 2018); Marco A. Gandásegui (h) compilador: Estados Unidos y la nueva correlación de fuerzas internacional (CELA, Panamá; CLACSO y Siglo XXI Editores, 2017) ; Silvina Romano, Aníbal García Fernández, Arantxa Tirado y Tamara Lajtman: “Elecciones presidenciales en EE. UU.: tendencias e impacto en América Latina”, accesible en:https://www.celag.org/elecciones-presidenciales-en-ee-uu-tendencias-e-impacto-en-america-latina/ Una revisión de las recientes elecciones se encuentra en Leandro Morgenfeld, ·Crónica de un escándalo anunciado”, en Revista Anfibia, Noviembre 2020, accesible en:http://revistaanfibia.com/ensayo/cronica-escandalo-trump-biden/ , Raúl Zibechi, El otoño del imperio, en La Jornada (México: 6 Noviembre 2020) accesible enhttps://www.jornada.com.mx/2020/11/06/opinion/019a1pol y Atilio A. Boron, “La herencia política de Trump”, en Página/12 (4 Noviembre 2020), accesible enhttps://www.pagina12.com.ar/303810-la-herencia-politica-de-trump
[ii] Sobre Biden es imprescindible leer la esclarecedora nota de Telma Luzzani en Página/12 del domingo 8 de Noviembre: “Elecciones en Estados Unidos: el gatopardismo de Biden”, disponible enhttps://www.pagina12.com.ar/304393-elecciones-en-estados-unidos-el-gatopardismo-de-biden
[iii] Tal como se informa enhttps://www.rollcall.com/2019/11/20/the-democratic-field-middle-class-heroes-or-millionaire-hypocrites/
[iv] Cf.https://www.opensecrets.org/elections-overview/biggest-donors El gasto total de la campaña en el 2020 fue de casi 14.000 millones de dólares, más del doble de lo que se gastara en la presidencial anterior, en el 2016. [v] Joe Biden, “Why America Must Lead Again. Rescuing U.S. Foreign Policy After Trump”, en Foreign Affairs, Volumen 99, Número 2, Marzo/Abril 2020. La acusación de “matón” en contra de Xi Jiping la refiere Rick Gladstone en “Biden to Face Long List of Foreign Challenges, With China No. 1”, en New York Times (7 Noviembre 2020), accessible enhttps://www.nytimes.com/2020/11/07/world/americas/Biden-foreign-policy.html
Leggi tutto...mercoledì 11 novembre 2020
Evo Morales torna in Bolivia da vincitore
dal sito contropiano.org
Torneremo e saremo milioni”, ha detto l’ex presidente durante il suo esilio in Argentina, citando la profezia del leader indigeno aimara, Túpac Katari.
Ieri, lunedì 9 novembre 2020, l’ex presidente della Bolivia Evo Morales ha appena attraversato il passo di frontiera La Quiaca-Villazón, per rientrare finalmente nella sua terra dopo l’esilio di quasi un anno prima in Messico, dove è stato accolto per circa un mese dal presidente Andrés Manuel López Obrador e successivamente in Argentina, dove ha trovato la calorosa accoglienza del presidente Alberto Fernández, che oggi ha voluto accompagnarlo fino al passo di frontiera.
Con questo passo Evo dà inizio alla cosiddetta Grande Carovana Popolare, con la quale vuole condividere con la popolazione il ritorno alla democrazia.
La carovana è composta da circa 800 veicoli, e percorrerà oltre 1.100 km attraversando tre dipartimenti (Potosí, Oruro e Cochabamba), fino ad arrivare all’aeroporto di Chimoré, il prossimo mercoledì 11 novembre. Evo ha scelto questa data per arrivare all’aeroporto perché proprio da lì, un anno fa, era dovuto fuggire e ora, simbolicamente, da lì rientra.
Migliaia di persone hanno accolto Evo alla frontiera. Qui di seguito l’articolo di Telesur che riassume questo evento.
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Evo Morales in Bolivia: “Abbiamo recuperato la democrazia senza violenza”
L’ex presidente d detto che in un anno sono stati recuperati per il popolo boliviano la democrazia, la patria e il Governo.
L’ex presidente della Bolivia e leader del Movimiento Al Socialismo (MAS), Evo Morales, ha detto nel suo primo discorso nella città di Villazón, Bolivia, appena rientrato questo lunedì nel suo paese dall’esilio, “Abbiamo recuperato la democrazia senza violenza. Abbiamo recuperato la Patria“.
Durante l’affollata cerimonia di benvenuto, tenutasi nella piazza Bolívar della città alla frontiera con l’Argentina, nel dipartimento di Potosí, Morales ha definito il momento come storico. “Nel mondo si fanno golpe contro Governi rivoluzionari, antimperialisti, che non recuperano rapidamente la democrazia e il Governo per il popolo“, ha aggiunto.
In un altro momento del suo intervento, il leader del MAS ha commentato le ragioni del colpo di Stato di novembre 2019. “Il golpe non è solo prodotto della lotta di classe, non è solo perché non accettano che gli indigeni possano governare, è stato un golpe al nostro modello economico, perché il nostro modello economico viene dal popolo“, ha aggiunto.
Morales ha pure detto che il colpo di Stato è stato fatto contro l’azione del suo Governo per il recupero delle risorse naturali. “Non l’accettano né l’imperialismo né il FMI“, ha precisato l’ex governante alludendo alla responsabilità del Governo degli Stati Uniti nel golpe.
“L’impero, il Fondo, non l’accettano. La lotta di tutta l’umanità, nelle nuove generazioni, è di chi sono le risorse naturali (…) Quando gli imperi vogliono prendersi le nostre risorse naturali, ci dividono, ci dominano. In Bolivia, con i movimenti sociali uniti abbiamo deciso che devono essere boliviane sotto l’amministrazione dello Stato“, ha aggiunto.
Il dirigente del MAS ha poi analizzato l’importanza della lotta elettorale e politica. “Solo con il potere sindacale, comunale, sociale, non potevamo nazionalizzare. Era importante dare impulso al potere politico, andare a elezioni nazionali e passare dalla lotta organica alla lotta politica“, ha precisato.
In relazione alle attività dell’amministrazione statunitense nelle passate elezioni del 18 di ottobre, in cui risultò vincitrice la formula Luis Arce-David Choquehuanca del MAS, ha detto: “(…) qual’era la meta dell’impero nordamericano? Proscrivere il MAS. Non hanno potuto“.
“Quando il MAS ha partecipato, hanno detto che il MAS non poteva tornare al Governo né Evo in Bolivia. Oggi il MAS è al Governo e Evo in Bolivia grazie al popolo boliviano“, ha detto. Morales ha pure richiamato all’unità e menzionato azioni recenti per minare la sicurezza interna.
Riferendosi alla vittoria elettorale di Luis Arce per la Presidenza, e David Choquehuanca per la Vicepresidenza, che si sono insediati in carica questa domenica, ha chiesto alle attuali autorità dell’organo giudiziario della Bolivia “che facciano un atto di giustizia con gli ex membri del Tribunale Supremo Elettorale e i Tribunali dipartimentali per le accuse di frode nelle elezioni” di ottobre del 2019.
Quasi alla fine del suo discorso, Evo Morales ha detto che esistono tre motivi di festeggiamento per i boliviani: la vittoria elettorale di Luis Arce e David Choquehuanca, il ritorno al paese di Evo Morales, dell’ex vicepresidente Álvaro García Linera e altri esiliati, e la sconfitta nelle elezioni statunitensi del repubblicano Donald Trump.
L’ex presidente boliviano ha ringraziato il benvenuto in massa datogli dal popolo di Villazón e ha inviato un saluto ai presidenti di Argentina, Alberto Fernández, Messico, Andrés Manuel López Obrador, Venezuela, Nicolás Maduro, Cuba, Miguel Díaz-Canel e “a tutti quelli che sono stati permanentemente preoccupati e occupati” per la sua situazione.
Durante l’affollato concentramento di Villazón, ha preso la parola anche il presidente della Federazione delle Associazioni Municipali della Bolivia, Álvaro Ruiz. Il dirigente ha detto: “Torna alla sua terra, alla sua patria, un leader nazionale; un uomo che ha rappresentato crescita per la nostra patria. Lo riceviamo a braccia aperte“.
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