lunedì 20 ottobre 2014

Ebola, Cuba risponde all’allarme Onu.



 Cuba. La piccola isola si mobilita contro l’Ebola.  Al via il vertice speciale dei paesi dell’Alba
Roberto Livi - il manifesto del 19/10/14.

Più di 4.000 morti in Africa occidentale  ma secondo gli esperti la cifra dovrebbe essere raddoppiata. Di fronte a questo tragico bilancio di vittime dell’Ebola l’Onu ha suonato l’allarme internazionale, chiedendo alle grandi potenze e alle ex colonie una mobilitazione straordinaria per contrastare il morbo. Però i grandi attori internazionali sono restii a far seguire i fatti agli allarmi.
E ancor di più a inviare personale medico in Africa. Così il compito di guidare la forza medica internazionale nel fronte di combattimento dell’Ebola, tocca a una piccola isola, con poco più di 11 milioni di abitanti e un reddito procapite di circa 5000 euro: infatti Cuba ha inviato la settimana scorsa in Sierra Leone un contingente di 165 fra medici, infermieri, biologi e specialisti in assistenza sociale. E entro l’anno giungerà un secondo contingente formato da 294 operatori della salute.
Non solo, da domani inizierà all’Avana un vertice speciale dell’Alleanza bolivariana dei popoli della nostra America-Trattato di commercio dei popoli (Alba-Tcp) per coordinare la cooperazione regionale per affrontare l’epidemia dell’Ebola e porre in atto misure preventive. Capi di Stato e di governo dell’Alba (Cuba, Venezuela, Ecuador, Bolivia, Antigua y Barbuda, Salvador, Nicaragua, Santa Lucia, San Vicente e Granadine, Surinam, San Domingo) rispondono così all’appello dell’Onu per decidere una politica comune di aiuti all’Africa occidentale e centrale e per evitare che il contagio si estenda all’America latina e ai paesi dei Caraibi.
Non è la prima volta che Cuba gioca un ruolo di primaria importanza nell’affrontare disastri internazionali: il suo contributo ai contingenti medici e sanitari impegnati in situazioni di crisi (epidemie, terremoti, ecc) non ha rivali: fino ad oggi circa 50.000 operatori sanitari cubani ben addestrati sono al lavoro in 66 Paesi. Non solo, l’isola ha sperimentato anche personale capace di intervenire in situazioni di crisi, come i cicloni, per organizzare la mobilitazione sociale e dare assistenza anche psicologica alla popolazione. Proprio grazie a questa esperienza e a tale massiccio impegno, il vertice straordinario dell’Alba è stato convocato all’Avana.
Con una dichiarazione del tutto inusuale, anche il segretario di Stato Usa, John Kerry ha riconosciuto il ruolo di avanguardia di Cuba rivolgendosi al corpo diplomatico straniero a Washington per chiedere una mobilitazione internazionale contro l’epidemia: «Cuba – ha detto – un paese di appena 11 milioni di abitanti ha inviato (in Africa) 165 operatori della salute e prevede di inviarne altri 300». La necessità di intervenire in Africa per fermare il contagio è stata più volte espressa dalle autorità cubane. Lo stesso Fidel Castro, in un articolo pubblicato ieri, ha espresso il suo commosso omaggio agli specialisti cubani impegnati in questa importante, ma anche pericolosa, missione umanitaria. «È giunta l’ora del dovere» e dell’impegno, conclude Fidel, ricordando che con questo vertice straordinario «noi latinoamericani e caribegni inviamo un messaggio di speranza e di lotta agli altri paesi del mondo».
Nonostante i riconoscimenti internazionali di fronte a tale impegno, vi è però chi non rinuncia a usare politicamente questa emergenza per attaccare il governo cubano. Il ruolo, ancora una volta, è toccato al Nuovo Herald che nei giorni scorsi ha pubblicato un articolo dedicato a «voci insistenti» le quali affermano che in caso di contagio «gli operatori sanitari cubani non saranno rimpatriati nell’isola». Come dire che saranno abbandonati alla loro sorte. Naturalmente, nessuna prova è stata fornita per sostenere tali «voci», che sanno di sciacallaggio.



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giovedì 16 ottobre 2014

Bolivia, il trionfo di Evo Morales.

Dal sito Altrenotizie - di Fabrizio Casari
Il messaggio delle urne boliviane è chiarissimo: il primo presidente indio della Bolivia sarà anche il prossimo. Con oltre il 60% dei voti, infatti, affermandosi in otto dei nove dipartimenti in cui è suddiviso il Paese, Evo Morales ha stravinto le elezioni di domenica scorsa in Bolivia e sarà ancora Presidente per altri 4 anni. L’ex leader del MAS (Movimiento al Socialismo), figura nobilissima della sinistra latinoamericana, ha conquistato per la terza volta la presidenza del suo paese, surclassando l’opposizione di destra sponsorizzata da Washington.

Il risultato era atteso. Non tanto per la debolezza della destra, quanto per i risultati di otto anni di presidenza della sinistra. Evo ha raccolto i frutti di quanto seminato in un paese che, nonostante la contrazione economica dell’area, risulta in pieno ciclo espansivo da diversi anni.
Ciò grazie agli otto anni della sua presidenza, caratterizzatasi per le politiche socialiste nella riorganizzazione dell’economia, fatte anche di nazionalizzazione degli impianti e di restituzione agli interessi nazionali degli accordi con le compagnie straniere. Con una economia in crescita del 6%, la Bolivia non poteva che assegnare con il voto il riconoscimento alla qualità dell’impianto socio-economico del modello.
I risultati della sua politica economica si sono visti: il ricavato dei suoi giacimenti di gas, delle sue piantagioni di soia e della raccolta della pasta di coca destinata al mercato legale, hanno prodotto un pareggio di bilancio mai registrato nella storia del paese andino. Un tempo destinate a prendere il volo verso gli USA, le risorse ottenute dall’industria dello sfruttamento degli idrocarburi sono state la fonte di finanziamento delle opere sociali che hanno enormemente ridotto la distanza tra i diversi settori sociali della società boliviana.
Aiuti diretti e indiretti agli anziani, alle donne in gravidanza e a tutti i bambini, ampliamento dei servizi e riconoscimento del dovere d'intervento dello Stato nelle problematiche più acute sono state il modus operandi del governare di Evo Morales.

Il successo economico del socialismo boliviano è stato possibile anche grazie ad un generale smantellamento del sistema costituzionale precedente, cucito su misura per gli interessi del latifondo locale le multinazionali estrattive statunitensi e che aveva regalato alla Bolivia 190 anni di storia coloniale.
In questo senso tra i successi maggiori e migliori ottenuti da Evo nei precedenti mandati c’è certamente quello della nuova Carta costituzionale, da lui fortemente voluta ed approvata nel Gennaio del 2009, che - come dichiarò alla sua approvazione -“rappresenta la fine del latifondismo e dell’epoca coloniale, interna ed esterna”.

E non è certo indifferente, per la riorganizzazione del tessuto produttivo del Paese, ciò che la Carta impone con l’articolo 398: il limite invalicabile di cinquemila ettari per l’estensione massima delle proprietà terriere e stabilisce altresì che sarà necessario, in futuro, ottenere l’approvazione delle comunità indigene prima di poter sfruttare le risorse naturali nel loro territorio.
La nuova Costituzione disegna la costruzione di uno Stato “unitario, sociale e di diritto plurinazionale, libero e indipendente, che offre ascolto a tutti i movimenti sociali sulle scelte riguardanti l’educazione, la salute e la casa”. Il testo costituzionale riconosce tre tipi di democrazia: rappresentativa, diretta e comunitaria e allo stesso tempo stabilisce una conseguente articolazione tra la giustizia ordinaria e la quella comunitaria.

E proprio sotto il profilo dell’articolazione dello Stato (elemento non certo secondario nella riforma di un Paese) l’innovazione è stata straordinaria e di assoluto valore storico: la nuova Carta, infatti, prende atto della struttura plurinazionale del paese che viene rappresentata direttamente ed indirettamente in tutti i suoi 411 articoli, che riconoscono sullo stesso piano le autonomie regionali, provinciali, territoriali indigene e municipali che già esistono.

Insomma, la Carta elaborata dall’Assemblea Costituente è stata un’opera di alta ingegneria politica e una vera e propria rivoluzione culturale, che ha aumentato notevolmente il controllo statale sull’economia e l’influenza delle 36 nazioni indigene nella rappresentanza politica. In questi ed altri passaggi si evidenzia il senso politico che ha caratterizzato i suoi mandati presidenziali di Evo Morales: la costruzione del retroterra politico ed istituzionale di un paese plurale sancito costituzionalmente.

Ieri, parlando dal balcone del Palacio Quemado, la sede del governo a La Paz, Evo ha dedicato la sua vittoria a “tutti i popoli del mondo in lotta contro l’imperialismo” e, in particolare, a Fidel Castro e Hugo Chavez, suoi punti di riferimento umani, oltre che politici.
Fidel Castro, che 54 anni orsono ruppe la catena di comando statunitense sul continente, trasformando Cuba nel primo territorio libero delle Americhe ed edificando un sistema che per equità e sovranità nazionale, é esempio vivente per tutta la sinistra del continente e non solo, di Evo è stato in qualche modo “padre putativo”, consigliere e riferimento costante nel suo agire politico.

Hugo Chavez, che seguendo il cammino tracciato da Simon Bolivar restituì il Venezuela ai venezuelani e che diede vita al “Socialismo del terzo millennio”, è stato l’alleato più immediato e leale per il giovane presidente boliviano, che pure nel suo incedere vittorioso ha dovuto affrontare (come Chavez) un tentativo di colpo di stato e serrate da parte dei suoi avversari che cercavano d’isolare la Bolivia e riportarla nelle solite mani a stelle e strisce.

D’altra parte la lunghissima marcia dall’opposizione al governo non faceva presagire un mandato tenue, incerto sul da farsi o a tinte fosche. L’integrità morale e la fede politica di Evo non erano adatte a un governo qualunque. E così non è stato.

Evo non ha adeguato i suoi ideali al mercato ma ha ricondotto il mercato alle esigenze del suo paese; non ha mai smesso i panni di leader della sinistra latinoamericana né ha avuto esitazioni nello scontrarsi con gli interessi e l’arroganza degli Stati Uniti. Dalla Cuba di Castro al Venezuela di Maduro, dal Nicaragua di Ortega all’Ecuador di Correa, dall’Argentina di Cristina Kirchner al Brasile di Djilma, Morales ha continuato a tessere la tela ormai robusta dell’unità latinoamericana.
Una consapevolezza continentale che ha nella sua unità la leva principale delle sue politiche commerciali e che ha seppellito da un decennio ormai, il Washington consensus, cioè quel sistema di dipendenza dagli Stati Uniti che, con rare e circoscritte eccezioni, caratterizzava le scelte e i destini dell’America Latina fino alla fine degli anni ’90.

La vittoria di Evo Morales è la vittoria di chi non svende per una poltrona i suoi ideali. Di chi non s’inginocchia, abbagliato dalla fama e dalle ricchezze e obnubilato dall’ambizione personale, di fronte al volere delle multinazionali ed al pensiero unico che ne costituisce l’humus ideologico.
Dimostra che si può pensare e realizzare una diversa politica economica e trarre i frutti per una diversa politica sociale. Che il mercato è un animale onnivoro che va controllato e regolamentato e che la ricchezza è solo arrogante privilegio se non viene distribuita equamente.
E dimostra anche che la sovranità nazionale, motore indiscutibile delle politiche economiche e sociali, si nutre dell’identità nazionale e del senso dell’indipendenza. La ricetta della vittoria della sinistra latinoamericana è soprattutto questa. Indipendenza, sovranità, integrazione, solidarietà: una manna indigesta per lo stomaco dello Zio Sam.
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venerdì 10 ottobre 2014

Nove ottobre. Il "Che" è ancora vivo

Da contropiano.org

Il 9 ottobre del 1967 muore, dopo essere stato ferito in combattimento e catturato dai killer del dittatore René Barrientos Ortuño, in Bolivia, uno dei rivoluzionari più limpidi e carismatici del '900. Impossibile sintetizzare qui la sua azione e i suoi scritti, l'importanza del contributo che ha dato al rovesciamento dell'oppressione in tutto il mondo, e non solo nella sua America Latina.
Lasciamo perciò volentieri che Ernesto Guevara de la Serna, per tutti e sempre "Il Che", guerrigliero e maestro di umanità coraggiosa, sia ricordato, in questo anniversario, dalle parole di José Saramago, premio Nobel per la letteratura e comunista senza pelosi ripensamenti.
*****
“Non importa quale ritratto.
Uno qualsiasi, serio, sorridente, con l’arma in mano, con Fidel o senza Fidel, pronunciando un discorso alle Nazioni Unite, o morto, con il torso nudo e gli occhi semiaperti, come se dall’altro lato della vita volesse ancora accompagnare il futuro del mondo che ha dovuto lasciare, come se non si rassegnasse a ignorare per sempre i percorsi delle infinite creature che dovevano ancora nascere.
Su ognuna di queste immagini si potrebbe riflettere lungamente, in modo lirico o in modo drammatico, con l’oggettività prosaica dello storico o semplicemente come chi si accinge a parlare dell’amico che uno scopre che ha perso perché non ha avuto l’occasione di conoscerlo...
Al Portogallo infelice e imbavagliato di Salazar e di Marcelo Caetano arrivò un giorno una foto clandestina di Ernesto Che Guevara, quella più celebre di tutte, con intensi colori neri e rossi, che divenne l’immagine universale dei sogni rivoluzionari del mondo, promessa di vittorie fertile al punto da non degenerare mai in routine o in scetticismi, ma che anzi darebbe luogo a molti altri trionfi, quello del bene sul male, quello del giusto sull’iniquo e quello della libertà sulla necessità.
Incollato o fissato alle pareti con mezzi precari, questo ritratto è stato presente a dibattiti politici appassionati in terra portoghese, ha sottolineato argomenti, ha lenito scoraggiamenti, ha raccolto speranze.
È stato visto come quello di un Cristo che fosse sceso dalla croce per crocifiggere l’umanità, come un essere dotato di poteri assoluti che fu in grado di estrarre acqua da una pietra per estinguere tutta la sete, e di trasformare questa stessa acqua nel vino con cui si avrebbe brindato allo splendore della vita.
E tutto questo era sicuro perché il ritratto di Che Guevara fu, agli occhi di milioni di persone, il ritratto della dignità suprema dell’essere umano.
Però fu usato anche come ornamento incongruente in molte case della piccola e della media borghesia intellettuale portoghese, per i quali residenti le ideologie politiche di affermazione socialista non passavano da un mero capriccio congiunturale, forma presumibilmente rischiosa di occupare l’ozio mentale, frivolezza mondana che non poteva resistere al primo confronto con la realtà, quando i fatti esigevano il compimento delle parole.
E allora il ritratto di Che Guevara, il primo testimone di tanti infiammati annunci di impegno e di azione futura, il giudice della paura nascosta, della rinuncia vigliacca e del tradimento aperto, è stato rimosso dalle pareti, occultato, nella migliore delle ipotesi, in fondo ad un armadio, oppure radicalmente distrutto, come se uno avesse voluto fare in passato qualcosa di cui ora dovesse vergognarsi.
Una delle lezioni politiche più istruttive, nei tempi attuali, sarebbe sapere cosa pensano di loro stessi queste migliaia e migliaia di uomini e donne che in tutto il mondo hanno avuto un giorno il ritratto di Che Guevara al capezzale del letto, o di fronte al tavolo da lavoro, o nel salotto dove ricevevano gli amici, e che ora sorridono per aver creduto o aver fatto finta di credere.
Qualcuno dirà che la vita è cambiata, che Che Guevara, nel perdere la sua guerra, ci ha fatto perdere la nostra, e quindi era inutile mettersi a piangere come un bambino la cui tazza di latte è stata versata.
Altri avrebbero confessato che si lasciarono coinvolgere dalla moda del tempo, la stessa che ha fatto crescere la barba e i riccioli, come se la rivoluzione fosse una questione per i parrucchieri.
I più onesti avrebbero riconosciuto che il cuore fa loro male, che sentono un eterno e incessante movimento di rimpianto, come se la loro vita fosse stata sospesa e ora si domandassero ossessivamente dove pensano di andare senza ideali né speranze, senza un’idea del futuro che dia un qualche senso al presente.
Che Guevara, se si può dire, esisteva già prima di essere nato.
Che Guevara, se si può fare quest’affermazione, continua ad esistere dopo essere stato assassinato.
Perché Che Guevara è solo un altro nome di quello che c’è di più giusto e di più degno nello spirito umano.
Quello che spesso vive addormentato dentro di noi.
Quello che dobbiamo svegliare per conoscere e conoscerci, per aggregare il passo umile di ognuno al percorso di tutti.”
(Tratto dal sito Rebelión, Traduzione di Julio Monteiro Martins)


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