Geraldina Colotti - Le Monde diplomatique, 17.06.2015
Libero dopo 16 anni di carcere.
Antonio Guerrero è uno dei cinque agenti cubani detenuti negli Stati uniti e
condannati a lunghe pene dopo un
processo ingiusto.
Si erano recati a Miami per
disinnescare una rete di attentatori anticastristi foraggiata dalla Cia, allora
particolarmente pericolosi.
Un’attività di prevenzione che
avrebbe salvato molte vite, non solo cubane, giacché i mercenari erano soliti
mettere bombe sugli aerei. Con la mediazione dello scrittore Gabriel Garcia
Marquez, Fidel Castro offrì allora collaborazione agli Stati uniti.
Il governo Usa preferì però
prestare orecchio alle potenti lobby anticubane piuttosto che alla
ragionevolezza e ai lodevoli intenti dell’intelligence dell’Avana.
Il resto è noto: i Cinque hanno subito pesanti
condanne durante processi evidentemente politici e viziati.
Nel 2009, dopo l’arresto di una
spia Usa sul territorio cubano, Alan Gross, l’Avana cerca di aprire una
trattativa: mettendo però in chiaro che – come tiene a precisare Guerrero in
questa intervista – «tra noi e un mercenario non c’è equivalenza, né quanto a
obiettivi, né per motivazione.
Lui lo fa per denaro e con fini
eversivi, noi per ideali e per difendere il nostro paese». Insieme ai suoi
compagni (due erano già usciti dal carcere), Guerrero è rientrato in patria il
17 dicembre per decisione di Obama: un segnale di disgelo per la ripresa delle
relazioni fra Cuba e Usa che ha già mosso i primi passi con la cancellazione di
Cuba dalla lista dei paesi «terroristi» stilata con arroganza da Washington.
A fine maggio, Guerrero è venuto
in Italia per un giro di conferenze, invitato dall’Associazione di amicizia
Italia-Cuba, e accolto da movimenti, circoli e organizzazioni che hanno animato
la campagna di solidarietà internazionale.
A Roma, ha tenuto il tavolo
insieme all’ambasciatrice cubana Alba Soto Pimentel, ad Alessandra Riccio e a
Gianni Minà, della rivista Latinoamerica. A una platea attenta, Guerrero ha
parlato delle carceri Usa, delle forti motivazioni che lo hanno spinto, e degli
anni trascorsi studiando, dipingendo e scrivendo poesie. «L’arte è stata una
chiave per immaginare e costruire liberazione, mi piace molto la canzone dei
Beatles, Imagine», ci ha detto il giorno dopo quando lo abbiamo incontrato per
questa intervista.
Quando viene arrestato, ogni prigioniero si chiede dove abbia
sbagliato. Lei che idea si è fatto, come mai vi hanno preso?
Non penso si possa parlare di
errori tecnici, anche se non possiamo sapere come nacquero gli indizi, quali
particolari conosca l’apparato d’intelligence Usa. Per noi è stato difficile
credere che un paese come gli Stati uniti, che si dichiara perennemente in
guerra contro il terrorismo permettesse e permetta a terroristi dichiarati di
organizzare attentati e non volesse cooperare con Cuba per difendere cittadini
innocenti. Noi abbiamo giocato pulito, la nostra azione non era rivolta contro
il governo degli Stati uniti. Gli abbiamo trasmesso informazioni che fino a
quel momento non erano riusciti ad avere. E abbiamo subito ammesso di essere
agenti non dichiarati e con un compito di prevenzione negli Usa. Cuba ha
inviato uomini disposti a correre un grande rischio contro un apparato di
intelligence con enormi mezzi e potenzialità, ma senza intenzione di far danno.
L’andamento del processo ha però subito dimostrato la volontà di picchiare
duro, non perché avessimo violato la legge, ma per castigare Cuba. Allora era
questo il clima, si voleva alimentare il conflitto fra i due paesi, i documenti
declassificati mostrano quello che abbiamo dovuto affrontare. Speriamo che ora
le cose possano andare diversamente. Stiamo aprendo degli spazi per adattarci
alle nuove condizioni esistenti nel mondo, ma senza smarrire la rotta. Di certo
abbiamo commesso errori, ma non si può guardare al passato con gli occhi del
presente, e viceversa. Bisogna andare avanti, e nessuno può farlo da solo.
Per Cuba e per i movimenti di solidarietà che vi hanno sostenuto, voi
siete i Cinque eroi…
Non sono un eroe: non più di
quanto lo sia chi semina o chi pulisce la strada e fa bene il proprio lavoro.
Ho semplicemente fatto il mio dovere. Ci sono tanti compagni che hanno pagato o
pagano una quota di sacrificio, e noi abbiamo fatto la nostra parte. Quando si
accetta un impegno come il nostro, occorre avere una motivazione forte, perché
si deve lasciare tutto, bisogna far credere anche ai propri cari di essere
diventati persone diverse, di aver tradito. Così abbiamo infiltrato la rete
terrorista. Quando ti si chiede se sei disposto a un compito simile, pensi ai
grandi precursori, che hanno dato la vita per una causa nobile, pensi a quello
che stai difendendo e alle ragioni profonde per farlo… È una missione, la devi
compiere. Dopo, tutto diventa un po’ più facile: «Nella vita – diceva José Marti
– hai due possibili opzioni: metterti dal lato in cui si vive meglio oppure
assumere il compito che ti spetta. E questo ti definisce come essere umano».
Tanti compagni sono andati a lottare e a morire in altri paesi. I nostri medici
vanno a rischiare la vita in Africa per combattere l’ebola. Anche oggi che
tutto ti spinge a stare dal lato comodo della strada, sono convinto che siamo
in tanti a poter capire quello che dico sulla necessità della scelta e sul
sacrificio. A Cuba è ancora così. Quando la rivoluzione chiede: chi vuole
andare? I giovani fanno a gara per alzare la mano. Non è una questione di
eroismo, ma di empatia, di percepire l’essenza dell’essere umano: la capacità
di sentire il dolore degli altri, di sentirsi responsabili se c’è chi si arroga
il diritto di toglierti il tuo ad esistere e a decidere in autonomia, se c’è
chi sfrutta o chi non lavora, chi commette un delitto o smarrisce la strada. Ci
sono sempre delle ragioni, e ci si deve chiedere se abbiamo agito bene per
individuarle e per risolverle. Vi sono problemi sociali la cui soluzione riguarda
tutti. Siamo esseri umani complessi, ma abbiamo la capacità di percepire
l’amore e possiamo educarci a comprenderlo. Il modo migliore per combattere il
terrorismo è sedersi a discutere i problemi fra paesi e arrivare alla radice
che li causa, agli interessi che li producono, e provare a combatterli.
Molti pensano che, con la loro esperienza e il loro carisma, Los Cinco
devono entrare in politica…
Lo so, molti pensano sia solo
questione di prestigio e che questo basti a dirigere. Ma anche quelli che
dirigono, hanno un prestigio che gli deriva dall’aver compiuto un certo
percorso. Per avere una responsabilità, bisogna aver acquisito autorevolezza,
in base a capacità e competenze riconosciute. All’inizio della rivoluzione,
abbiamo avuto tanti combattenti prestigiosi che hanno assunto compiti di
direzione, però non avevano le competenze necessarie in determinati campi, e
così le cose sono andate più a rilento. Dirigere? Ma per noi gli incarichi sono
transitori, si assumono come si svolge un compito, non per scalare posizioni
sociali. Quando siamo usciti, abbiamo detto al presidente Raul Castro: eccoci,
siamo a disposizione per quel che serve. Lo abbiamo detto con lo stesso
entusiasmo nella direzione della rivoluzione di quello che avevamo quando siamo
andati via da Cuba, 24 anni fa. Non abbiamo nessun’altra aspirazione che quella
di essere utile alla rivoluzione. Io mi sentirei perfettamente realizzato a
fare il maestro in una delle comunità che ho ritrovato, o nel realizzare
progetti, visto che sono ingegnere. Con la loro lungimiranza, i nostri dirigenti
ci hanno detto però di aspettare, in fondo sono solo cinque mesi che siamo
fuori. E se c’è ancora bisogno di noi per andare all’estero a ringraziare chi
ci ha sostenuto o per essere ambasciatori di pace, come facciamo con il lavoro
quotidiano? Aspettiamo, quindi. La politica si fa con l’esempio, la politica è
dappertutto: in un consultorio, in un quartiere, in una strada. Se non avessimo
dato importanza a questo modo di far politica, non saremmo usciti fuori dalle
terribili difficoltà degli anni ‘90. Allora, davvero, non avevamo niente, e per
venirne fuori abbiamo pagato un prezzo alto. Ora nei negozi si trova di tutto,
le difficoltà che abbiamo adesso, si possono risolvere. Ma se c’è un posto in
cui più esistono le possibilità di avanzare verso una società ancora più giusta
ed equa, come cerchiamo di fare noi ogni giorno, quella è Cuba.
Qualcuno ha detto che Fidel non vi ha ricevuto subito perché non era d’accordo
a farvi uscire dal carcere in questo modo, perché avrebbe preferito percorrere la strada di un
nuovo processo…
Ah, ma questi sono i giornalisti
delle vostre parti che, pur di far vendere qualche copia in più ai loro
padroni, anche se li costringono in un recinto prestabilito, s’inventano gli
scoop inesistenti. Fidel ha aspettato a riceverci per lasciare la prima parola
ai cubani, al presidente Raul che è venuto ad aspettarci all’aeroporto. Poi
siamo stati con lui per quasi cinque ore, a parlare come se fossimo in
famiglia. Ho tanti ricordi belli di quell’incontro, per esempio quando ci ha
porto il suo cucchiaio e il vasetto di yogurt perché assaggiassimo un nuovo
prodotto di Cuba. Si vedeva che Fidel era molto felice di averci con lui, ci
trasmetteva le sue emozioni. Guarda che Fidel ha un grande peso nelle decisioni
del mio paese e nella loro realizzazione concreta. Resistere e ritornare senza
svendere i nostri principi, questa era la posizione di Cuba e di Los Cinco. A
un certo punto, è stato arrestato un agente della Cia, Alan Gross. Raul Capote
ha raccontato quali fossero allora le trame di Washington contro di noi in quel
periodo. Volevano corrompere gli intellettuali, creare una nuova classe
dirigente da usare per il piano destabilizzante che avevano in mente. Di certo,
non può esserci equivalenza tra le persone come noi, disposte tranquillamente a
sacrificare la vita per i propri ideali, e quella di chi lo fa per denaro. Sono
situazioni ben distinte e così sono state trattate a partire dal momento in cui
si è aperto uno spiraglio. Fidel ha agito nello stesso modo in cui fece quando
si trovava sul Granma. Allora, quando la barca dei rivoluzionari stava
avanzando verso la nostra isola, un compagno cadde in acqua. E tutti si
fermarono a salvarlo, per continuare insieme…
A proposito di viaggi. Voi siete stati ultimamente in Venezuela, il
paese che più ha raccolto l’eredità di Cuba e gli strali degli Usa. Che giudizio ne dà?
Guarda, per esperienza diretta
posso dirti che nei posti più reconditi dove da poco è arrivata la luce
elettrica, c’è un medico cubano che ti racconta quale straordinario cambiamento
si sia messo in moto in questi 16 anni di governo socialista. In quei posti, i
medici venezuelani non vogliono andare, preferiscono fare i soldi nelle
cliniche private. Il Venezuela è un paese petrolifero che importa gran parte
degli alimenti che consuma. I grandi gruppi privati cercano di provocare uno
scontento, perturbano la distribuzione e il commercio. Il fatto è che il
Venezuela si è convertito in un faro irreversibile di giustizia e distribuzione
delle risorse, e questo esempio fa paura. Il capitalismo non può prosperare senza
saccheggiare le risorse. Non può mantenere il livello di spreco per pochi senza
sfruttare risorse umane a bassissimo costo per i propri interessi. Ho vissuto
negli Usa. Ero cittadino statunitense ma non parlavo bene la lingua e venivo
trattato come un migrante: lì ci sono mestieri dequalificati, destinati solo
agli ispanici e ai neri.
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