di Fabrizio Casari
Ottantotto anni dopo l’ultima visita di un Presidente degli
Stati Uniti, Barak Obama arriva a Cuba. Un viaggio il cui svolgimento in sé
rappresenta un evento storico che in qualche modo ne relativizza la stessa
agenda, per quanto importante. La visita di Obama prevede infatti incontri con
Raul Castro ed attività di varia natura, compresi un intervento pubblico che la
Tv cubana manderà in onda integralmente e anche un breve incontro con i
cosiddetti “dissidenti”. Ma nulla a che vedere con la forza delle immagini che
illustreranno l’omaggio del Presidente degli Stati Uniti al mausoleo di Josè
Martì, padre della Cuba ribelle e simbolo della lotta per l’indipendenza
dell’isola e dell’intera America Latina.
Cuba si appresta a ricevere l’illustre ospite con serenità e
disponibilità al dialogo, il suo arrivo segna comunque una tappa importante nel
processo di normalizzazione delle relazioni tra i due paesi. Tappa che, da
parte di Cuba, ci si aspetta possa determinare una spallata importante al
blocco economico e commerciale che gli Stati Uniti hanno deciso unilateralmente
dal 1961. Ma, nei desiderata di Obama, il suo viaggio dovrebbe rappresentare
anche una scossa robusta all’impianto del sistema politico cubano, ipotetica medaglietta con la quale lasciare la Casa
Bianca passando direttamente alla storia.
E’ però facile pronosticare come entrambi gli auspici siano
destinati a rimanere tali, sebbene nel caso del blocco è evidente che l’arrivo
di Obama potrà comportare un ulteriore impulso verso la sua revisione totale.
Revisione e non cancellazione, dal momento che lo strumento legislativo è per
ora inibito, non godendo Obama di maggioranza né al Congresso né al Senato e
non avendo dimostrato, fino ad ora, l’intenzione di aprire un vero e proprio
confronto con il partito repubblicano (e anche buona parte del partito
democratico) alla ricerca di una soluzione politica all’obbrobrio giuridico che
compone il blocco più inutile ed anacronistico mai visto nella storia del
consesso delle nazioni.
Un blocco che agli Stati Uniti è costato sì la condanna
dell’intero pianeta, ma a Cuba il prezzo pagato é stato di migliaia di vittime
e centinaia di miliardi di dollari in danni diretti ed indiretti. Tanti da
ipotecarne il modello di sviluppo, costringendo il paese a drenare risorse
importantissime per destinarle ad arginare gli effetti del blocco.
In attesa di conoscere quali saranno le conseguenze
politiche della visita di Obama, si può intanto notare l’intensificarsi degli
sbarchi di imprenditori e uomini d’affari, accompagnati dal consueto stuolo di
avvocati, maneggioni e squali d’ogni genere che fiutano il business che verrà.
C’é da dire che la vista e l’olfatto cubano non sono da meno e dunque, in
assenza di normalizzazione delle procedure finanziarie, dello sblocco del
sistema bancario cubano e della riammissione delle transazioni internazionali
in divisa, fino ad ora oggetto di pesanti multe extraterritoriali inflitte da
Washington ai paesi terzi, cocktail e interpreti saranno gli unici ad agitarsi.
Molti degli osservatori si domandano cosa dirà Obama avendo
l’occasione di parlare al popolo cubano e sembrano nutrire illusioni mal
riposte circa l’impatto che le sue parole potranno avere sulla popolazione
dell’isola. Sognano catarsi improbabili e s’immaginano scenari
fantascientifici. Sarebbe ingenuo, da parte di Obama, pensare di riuscire dove
nemmeno Woytila poté, ovvero fornire una spalla ideale per utilizzare le
difficoltà e le contraddizioni di un paese alle prese con il suo rinnovamento
per trasformarle in dissenso politico di massa.
Non a caso il governo ha deciso di lasciare microfoni e
telecamere aperte; segno evidente di quanto sia ampio il sostegno politico di
cui gode. Ovviamente Obama ribadirà i suoi concetti, la sua idea di democrazia,
ma gli argomenti di cui dispone sono fiacchi e ampiamente collaudati nel loro
fallimentare realismo. E del resto, che cosa potrebbe dire Obama ai cubani?
Qual lezione di democrazia potrebbe impartire?
Rivendicare le elezioni multipartitiche come segno di democrazia?
Difficile, visto che negli USA è illegale la presenza politica per comunisti,
socialisti e anarchici. Potrà spacciare il suo modello elettorale come
migliore, quando votano a malapena il 35% degli aventi diritto contro il 96%
dei cubani che esercitano il voto con regolarità? Eviterà accenni
sull’indipendenza del potere politico dal potere finanziario?
Difficile possa convincere qualcuno, visto che i poteri
forti e Wall Street decidono chi e come governa, mentre a Cuba lo decidono i
cittadini. Potrà raccontare di un modello sociale migliore? Improbabile, visto
che le percentuali di disoccupati, homeless, malati psichiatrici,
tossicodipendenti e carcerati negli USA sono le più alte del mondo e quelle di
Cuba sono al punto più basso delle statistiche internazionali.
Potrà identificare il suo modello di protezione sociale come
rispondente all’universalità dei diritti? Farebbe comicità involontaria, mentre
a Cuba l’inclusione sociale è l’essenza pura del modello politico. O potrebbe
parlare di diritti umani, quando Cuba rappresenta uno dei pochi paesi a
rispettare l’indice GINI? Meno che mai di repressione, quando lo normalità per
le forze dell’ordine statunitensi è uccidere i neri, la tortura è denunciata da
molti organismi indipendenti e Guantanamo rappresenta l’essenza del modello. O
magari potrebbe lanciarsi in discorsi sulla libertà di espressione, quando gli
Stati Uniti con il Patrioct Act hanno raggiunto il punto più alto del controllo
di massa della loro popolazione?
E potrà rivendicare il contributo alla pace del mondo di un
paese come gli Stati Uniti che hanno promosso e sostenuto 63 guerre negli
ultimi trent’anni, e che nella loro storia poco più che bicentenaria hanno
lanciato le loro truppe in operazioni all’estero per 221 volte?
Cuba, invece, può vantare le missioni internazionaliste che
hanno contribuito in maniera determinante alla decolonizzazione dell’Africa dal
colonialismo europeo. Di quale ruolo nel mondo potrebbe parlare Obama a Cuba,
con i suoi droni che scaricano bombe, quando L’Avana può ricordare l’opera
gratuita dei medici cubani che si recano nei luoghi più sperduti della terra e
che sono oggi numericamente più numerosi che tutti quelli inviati dall’OMS?
O potrebbe parlare del sistema sanitario? A Cuba è tra i
primi del mondo, per antonomasia il più includente, mentre in un ospedale
statunitense si può morire se sprovvisti di assicurazione medica. E potrà
invece Obama sottolineare il rispetto per la sovranità nazionale dei paesi
terzi con l’NSA che spia tutti i governi, amici compresi, di fronte alla Cuba
che altro non ha fatto se non difendersi dall’attività di spionaggio
statunitense? O disserterà sul rispetto della volontà popolare quando da 61
anni gli USA destinano una parte del bilancio statale alla promozione della
sovversione interna a Cuba?
I colloqui tra Obama e Raul si fonderanno su quello che i
rispettivi staff discutono da ormai un anno, ovvero dei modi e dei tempi con i
quali favorire progressivamente il processo di normalizzazione. D’altra parte,
paradossalmente, Cuba ha fretta, ma Obama ancor di più. Il Presidente degli
Stati Uniti ha poco più di sette mesi di mandato innanzi a sé e se non vuole
annoverare un'altra incompiuta dei suoi otto anni, deve per forza chiudere le
questioni salienti con Cuba entro la prossima estate.
Cuba, dal canto suo, ritiene di dover concludere un accordo
generale prima del voto di Novembre, dal momento che se una eventuale vittoria
di Hillary vedrebbe Washington sulla stessa scia di Obama per quanto attiene al
dossier Cuba, diversissimo sarebbe lo scenario di fronte ad una ipotetica
vittoria di Trump.
E dunque lo sforzo dovrà essere reciproco, ma non va
dimenticato che lo scenario di questa normalizzazione si è dato perché gli
Stati Uniti hanno cambiato la loro politica verso Cuba prendendo atto del suo
fallimento, mentre L’Avana non ha cambiato nemmeno una virgola della sua
posizione. Dunque toccherà a Obama fare un ulteriore passo verso l’apertura:
suo é il problema, non cubano.
Se per Obama questa visita rappresenta direttamente ed
indirettamente l’ammissione di una politica cieca ed inconcludente, discorso
opposto vale per Raul Castro. In questo senso, anche la scelta di aprire i voli
statunitensi per Cuba ma impedire ancora i voli cubani per gli USA, non aiuta,
perché rappresenta una idea cialtrona e mercantile di quello che gli USA
intendono per reciprocità. E’ solo un esempio di una mentalità coloniale che
difficilmente il viaggio di Obama riuscirà ad estirpare. Un annuncio in
direzione di un ulteriore cambio di atteggiamento sarebbe però auspicabile e
segnerebbe con decisione una impronta politica realista e sostenibile anche
negli stessi USA.
Cuba dal canto suo ha le idee chiare su quali debbano essere
i passaggi per arrivare alla normalizzazione completa delle relazioni
diplomatiche e pone alcune precondizioni affinché di possa procedere
speditamente verso la strada della collaborazione. In premessa va garantito il
principio di reciprocità tra i due paesi e il rispetto delle diversità e
specificità di ordine politico e culturale, ovvero il reciproco rispetto di due
sistemi che sono per natura opposti ma che possono riconoscersi e rispettarsi.
Nel concreto Cuba chiede la fine delle politiche destinate a
produrre sovversione nell’isola; la restituzione di Guantanamo, l’abolizione
progressiva delle misure finanziarie che impediscono lo sviluppo delle attività
commerciali import/export dell’isola sono passi che, nella loro concretezza,
segnerebbero davvero la svolta attesa.
Cuba vive da qualche anno un processo profondo di
cambiamento. L’applicazione delle riforme economiche fa dell’isola un
laboratorio aperto nella sperimentazione di un percorso di rinnovamento pur
nella conservazione del sistema. I processi produttivi, l’organizzazione del
mercato del lavoro, l’ampliamento significativo dei settori destinati
all’economia privata, si sposa però indissolubilmente con il carattere pubblico
ed universale della sfera dei diritti sociali e questo conferisce autorevolezza
e credibilità ad un processo che in molti si ostinano a leggere come un progressivo
cedimento.
Difficile poter definire in base alle teorie economiche
classiche il modello in corso di sperimentazione; per la prima volta, sembra
che possa delinearsi un modello tutto cubano, calibrato sulle necessità e
possibilità del paese e non importato dalle dottrine altrove pensate ed
applicate. Una forma di sperimentazione suscettibile di cambiamenti continui,
ma con una bussola che orienta bene. Che mostra con chiarezza senza renderli
incompatibili il Nord e il Sud nel disegno di un futuro possibile.
L’isola del resto non fa mistero, anzi lo ripete
quotidianamente, di essere la Cuba che ha resistito con la forza delle sue idee
a 61 anni di guerra non dichiarati, non mancando mai al suo dovere storico in
patria e fuori da essa. Qualunque ipotesi esterna che prevedesse lo scambio tra
normalizzazione con gli USA al costo della messa in disparte del sistema di
valori che dal 1959 l’ha formata e determinata, sarebbe una pura illusione.
Per Cuba la normalizzazione delle relazioni con gli Stati
Uniti rappresenta di per sé un ulteriore conferma di come 55 anni di resistenza
non sono stati vani; le aperture già determinatesi con l’evoluzione del
socialismo cubano troveranno ulteriore rafforzamento da questo passaggio. Il
cui significato sarà soprattutto politico, fino a quando non si accompagnerà
alla fine formale del blocco economico, ma il cui valore simbolico rappresenta
la fine di un’era e l’inizio di un nuovo corso della storia.
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