Fidel non ha bisogno di essere ricordato, viene replicato da noi cubani nel modo di affrontare quotidianamente le piccole e grandi prove umane, essere virtuosi
significa rinnovare ogni giorno la Rivoluzione, la sua trascendenza è di vitale
importanza; l'uomo e il capo comandano ancora, nel tempo,
nonostante gli annuari.
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domenica 25 novembre 2018
venerdì 2 novembre 2018
Cuba, il mondo contro il blocco USA di Fabrizio Casari
Care/i compagne/i
di seguito l'inizio dell'articolo di Fabriazio Casari pubblicato sul sito ALTRENOTIZIE sull'ennesima condanna da parte dell'ONU del blocco economico a cui gli USA sottopongono Cuba da oltre sessant'anni. Buona lettura.
Hasta siempre!
Italia-Cuba Senigallia
Per la ventisettesima volta, ed ogni volta in forma più netta, la
comunità internazionale, rappresentata nell’Organizzazione delle Nazioni
Unite, ha condannato il blocco politico, commerciale, diplomatico e
finanziario con il quale, da oltre sessanta anni, gli Stati Uniti
martirizzano il popolo cubano. La condanna del mondo intero ha indossato
le vesti dell’indiscutibile: centottantanove paesi hanno infatti votato
a favore della mozione presentata da Cuba che chiedeva l’immediata
revoca dell’embargo statunitense. Gli unici due voti a favore degli
Stati Uniti sono stati quello di Israele e degli stessi Stati Uniti,
uniti in un sentiment ideale che da Guantanamo a Gaza esprime con
chiarezza il senso dei due paesi per i diritti umani.
Diversamente dalle 26 precedenti occasioni, benché l’Amministrazione Trump ritenga le Nazioni Unite un luogo inutile quando non dannoso, gli USA hanno deciso di tentare di uscire dall’angolo nel quale sanno di trovarsi ed hanno proposto otto emendamenti. L’intento evidente era di trovare un pertugio, un canale, per stretto che fosse, che portasse dalla loro parte almeno un paese degno di essere indicato come significativo nella comunità internazionale. Operazione fallita: nemmeno i suoi alleati latinoamericani hanno seguito Washington, anche all’obbedienza c’è un limite.
l'articolo completo su http://www.altrenotizie.org/primo-piano/8205-cuba-il-mondo-contro-il-blocco-usa.html Leggi tutto...
di seguito l'inizio dell'articolo di Fabriazio Casari pubblicato sul sito ALTRENOTIZIE sull'ennesima condanna da parte dell'ONU del blocco economico a cui gli USA sottopongono Cuba da oltre sessant'anni. Buona lettura.
Hasta siempre!
Italia-Cuba Senigallia
Cuba, il mondo contro il blocco USA di Fabrizio Casari
Diversamente dalle 26 precedenti occasioni, benché l’Amministrazione Trump ritenga le Nazioni Unite un luogo inutile quando non dannoso, gli USA hanno deciso di tentare di uscire dall’angolo nel quale sanno di trovarsi ed hanno proposto otto emendamenti. L’intento evidente era di trovare un pertugio, un canale, per stretto che fosse, che portasse dalla loro parte almeno un paese degno di essere indicato come significativo nella comunità internazionale. Operazione fallita: nemmeno i suoi alleati latinoamericani hanno seguito Washington, anche all’obbedienza c’è un limite.
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giovedì 18 ottobre 2018
“Il neoliberismo produce miseria e povertà. E’ ora di nazionalizzare”. Intervista a Luciano Vasapollo
Da CONTROPIANO.org
Intervista de l’AntiDiplomatico al direttore scientifico del
Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali del sindacato USB in vista della
manifestazione del 20 ottobre a Roma per le nazionalizzazioni
Finalmente in Italia si torna a discutere di
nazionalizzazioni. A determinare il ritorno d’attualità di questo argomento
cruciale per l’economia di una nazione hanno sicuramente contribuito le
polemiche suscitate dal tragico crollo del Ponte Morandi a Genova. Evento che
ha palesato il fallimento totale della privatizzazione delle autostrade
italiane. Assurte a simbolo del fallimento di una strategia politica
ultra-ventennale.
È datato 1993 infatti, all’epoca c’era il governo Amato,
l’avvio della strategia che ha portato lo Stato a ritirarsi dall’economia. In
ossequio ai dettami del neoliberismo. Dove tutto deve essere lasciato alla
gestione della cosiddetta mano invisibile del mercato. Il fallimento di una
siffatta teoria economica è sotto gli occhi di tutti. Con un’Italia in piena
devastazione economica e sociale.
Di un tema centrale e ineludibile, quale le
nazionalizzazioni, per qualunque forza politica voglia risollevare le sorti del
paese e le condizioni di vita della classe operaia e delle larghe messe
popolari abbiamo deciso di discuterne con Luciano Vasapollo, direttore
scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali del sindacato
USB; professore di Analisi Dati di Economia Applicata alla «Sapienza»
Università di Roma, Delegato del Rettore per le Relazioni Internazionali con i
Paesi dell’America Latina e dei Caraibi; e professore all’Università de La
Habana (Cuba) e all’Università «Hermanos Saíz Montes de Oca» di Pinar del Río
(Cuba); autore del libro “Pigs. La vendetta dei maiali”, insieme a J.Ariolla,
R.Martufi – che segue Pigs. Il Risveglio dei maiali – in cui si approfondisce la discussione sulla
necessità della rottura della gabbia dell’Unione Europea e si avanza una
proposta politica che allude ad un area alternativa Euro/Mediterranea sganciata
dai dispositivi di dominio, rapina e sudditanza della borghesia continentale
europea.
Professore, la parola nazionalizzazione è tornata al centro
del dibattito pubblico dopo che per un lungo periodo questa è sembrata una
bestemmia. Quali obiettivi si propongono quelle forze politiche che daranno
vita alla manifestazione incentrata proprio sulle nazionalizzazioni il prossimo
20 di ottobre a Roma?
Al centro degli obiettivi di questo appuntamento di
mobilitazione c’è il rilancio della parola d’ordine – un vero e proprio
programma di medio periodo – della Nazionalizzazione dei settori strategici
della produzione.
C’è voluta la catastrofe di questa estate del ponte Morandi
a Genova per riportare all’ordine del giorno – del dibattito pubblico e dell’agenda
politica – l’autentico disastro sociale prodotto dalla lunga stagione di
privatizzazioni, dismissioni, esternalizzazioni e depauperamento del patrimonio
industriale ed infrastrutturale del nostro paese. Una sequenza che ha
pesantemente segnato il corso economico del capitalismo italiano almeno negli
ultimi 25 anni provocando non solo una deregolamentazione del lavoro e dei
diritti ma anche un peggioramento della quantità e della qualità dell’offerta
dei servizi pubblici ed essenziali.
Infatti – volendo periodizzare questa fase di
ristrutturazione del Sistema/Italia – possiamo datare dal periodo di vigenza
del governo Amato (1993) l’avvio della lunga serie di privatizzazioni che hanno
modificato il volto e la struttura del capitalismo tricolore unitamente al
complesso delle relazioni produttive, economiche e normative
dell’Azienda/Italia.
Abbiamo vissuto una intera fase della storia economica in
cui soggetti finanziari famigerati come Société Générale, Rothschild, Crédit
Suisse, JP Morgan, Goldman Sachs (ossia la cupola dei poteri forti del
capitalismo internazionale) hanno fatto ‘il bello ed il cattivo tempo’
cannibalizzando la struttura industriale italiana, dettando le condizioni della
sua svendita, le conseguenti politiche anti-operaie da applicare verso i
lavoratori interessati da questi processi ed imponendo la linea di condotta da
seguire la quale – seppur con approcci differenziati – è stata supinamente
accettata ed applicata supinamente dal susseguirsi dei vari esecutivi di
governo nel corso di questi decenni.
Del resto il consumarsi di alcune vicende simbolo degli
ultimi anni – Alitalia, Ferrovie, Sip/Telecom ed Ilva in primis – hanno
riproposto uno scenario economico in cui vige, unicamente, la logica del
profitto a tutti i costi, l’abbandono di ogni parvenza di clausola sociale,
l’assenza di una qualsivoglia forma di programmazione con una idea di sviluppo
generale utile per la collettività ed il trionfo del feroce totem
ultraliberista della “centralità del mercato”.
Il tutto è avvenuto in una congiuntura politica dove i
processi di centralizzazione e concentrazione dei settori più forti della
borghesia continentale (annidati attorno al nocciolo duro dell’Unione Europea)
hanno favorito e spinto le dinamiche di spoliazione, ridimensionamento e
declassamento dell’economia del nostro paese in direzione di una generale
svalorizzazione della forza lavoro e della sua qualità salariale, normativa e
professionale. Un processo scientificamente pianificato che è stato funzionale
alla nuova divisione del lavoro e delle sue filiere lungo tutta la Eurozona in
un contesto oggettivo di accelerazione di tutti i fattori della competizione
internazionale tra blocchi e potenze globali.
Come siamo arrivati a questo punto?
Il conflitto sociale e la forza del movimento operaio
crescevano e quando l’ammortizzatore dello Stato sociale e delle
nazionalizzazioni non sono più serviti, il grande capitale nazionale e
transnazionale, e quindi anche gli Stati Uniti, hanno giocato in Italia l’arma
del terrorismo e del fascismo. Ricordiamo la stagione delle stragi impunite, i
tentativi di colpo di Stato. Non c’è un capitalismo buono e uno cattivo. Il
capitalismo usa i suoi strumenti in funzione dei rapporti di forza. Quando i
rapporti di forza erano positivi per i lavoratori il capitale ha dovuto
concedere le nazionalizzazioni e lo Stato sociale. Una volta sconfitto il
movimento operaio ha operato una ‘normalizzazione’ cancellando tutte le
conquiste strappate attraverso decenni di lotta.
In questo scenario quale è stato il ruolo dell’Unione
Europea, una costruzione basata sul neoliberismo?
Il ruolo dell’Unione Europea è quello definito
dall’ortodossia neoliberale. L’UE non è nata come luogo dei popoli o per
assicurare ai popoli una maggiore democrazia. Questa sta funzionando
esattamente per come è stata concepita. La struttura di quella che possiamo
definire la gabbia europea è fondata sui trattati che ne rappresentano
l’architrave e l’essenza stessa, a partire da quelli di Roma del ’57 fino ad
arrivare al famigerato “Fiscal Compact”. Un architrave, quello dei trattati,
che ha prodotto un sistema di governo post-democratico negli stati membri con
la relativa espulsione della sovranità democratica e popolare, la distruzione
dello stato sociale, la privatizzazione dei servizi pubblici, la
precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro, distruggendo quel diritto al
lavoro che crea una “vita degna per sé e per la propria famiglia”, come
recitato dalla nostra stessa Costituzione. I trattati, infatti, sono
completamente incompatibili con essa, soprattutto con i principi fondamentali
che garantiscono stato sociale, salute, tutela dell’ambiente e diritto al
lavoro. Da qui si percepisce la grande volontà posta in campo negli ultimi anni
per cambiarla, per fondarla sulla libera concorrenza di mercato, anche se in
realtà è già stata minata alla radice con la famosa introduzione del pareggio
di bilancio, articolo 81. L’attuale formulazione dell’articolo, difatti,
impedisce di realizzare politiche economiche espansive, rivolte al bene
pubblico, al sociale, fuori dall’egida del profitto e del pareggio di bilancio;
cosa di cui incominciamo a vedere le conseguenze con la caduta del ponte
Morandi a Genova. Il testo affronta la problematica dell’”Europa a due
velocità”, “centro- periferia” che sta ridefinendo i rapporti tra i paesi del
centro a guida franco-tedesca e quelli del sud, relegando quest’ultimi ad
essere in ultima istanza fornitori di manodopera e servizi perlopiù turistici e
di ristorazione.
Una situazione che ha visto i paesi PIGS particolarmente
penalizzati.
I paesi cosiddetti PIGS sono stati massacrati attraverso la
logica del credito-debito che rafforza la sudditanza dei paesi periferici nei
confronti dei paesi del centro. La vicenda greca in tal senso è paradigmatica.
Professore, affrontiamo un tema caldo e spesso agitato come
uno spauracchio: l’Italia dovrebbe uscire dall’euro?
È utile ribadire che la questione dell’uscita dall’euro e
dall’Unione Europea non è da noi concepita in chiave nazionalista, cioè di
generica, impropria, inadeguata e dannosa sovranità nazionale ma ha una
dimensione immediatamente di classe perché è un passaggio, se storicamente
affrontato da una soggettività politica consapevole e capace di svolgervi una
funzione, in grado di porre le basi per una inversione dei rapporti di forza
lavoro-capitale nel polo imperialista europeo.
La creazione dell’euro è stata accompagnata
dall’intensificazione del mercato unico e dalla divisione europea del lavoro,
andando verso una formazione sociale su scala europea – attualmente, un quarto
del PIL dei paesi dell’Europolo viene valutata per mezzo del mercato comune e
la specializzazione settoriale intraeuropea si trova in una fase di
deindustrializzazione accelerata della periferia dell’area. Nonostante questo
processo non sia ancora stato completato, la frammentazione monetaria dell’Euro-zona
è una possibilità reale, ciò che non lo è, è tornare a monete nazionali che
lungi dal rappresentare una sovranità (monetaria) recuperata, non potrebbero
non essere che simboli monetari di territori politicamente ed economicamente
frammentati e dipendenti dall’area di influenza del capitale europeo. Se i
paesi della periferia europea vogliono riprendere il controllo sull’attività
produttiva, lo potranno fare solo in modo congiunto e mediante un processo di
rottura con il modello delle finanze private e con lo spazio monetario
asimmetrico di adesso. L’uscita dall’euro è una opzione politica più che
economica e può essere un passo verso la soluzione dei gravi squilibri
strutturali delle economie periferiche, che non sono squilibri finanziari, ma
produttivi: una base industriale in declino, uno spreco enorme di forza lavoro,
una concentrazione scandalosa della ricchezza e del patrimonio. Però come sfida
politica generale, supera il grado di autonomia decisionale di qualsiasi paese
danneggiato dalla politica che soggiace al patto originario dell’euro.
Uscire dall’euro proponendo una nuova moneta per Paesi con
strutture produttive più o meno simili sarebbe l’unica alternativa
realizzabile, che permetterebbe sia di mantenere un margine di negoziazione con
le istituzioni comunitarie e con la Banca Centrale Europea sia di creare un
nuovo blocco politico istituzionale capace di realizzare un modello di
accumulazione favorevole ai lavoratori.
Quindi c’è vita oltre l’euro e l’Unione Europea…
Riveste, a questo proposito, particolare importanza – per i
suoi auspicabili risvolti politico/pratici nei confronti delle lotte popolari e
dei movimenti sociali – il Programma di Alternativa di sistema: uscire dalla
UE, dall’Euro, costruire l’Area Euromediterranea, recentemente adottato dalla
Piattaforma Sociale Eurostop, il quale individua nelle lotte per imporre la
Nazionalizzazione dei settori strategici dell’economia un punto programmatico
serio e costitutivo per quell’indispensabile accumulo delle forze e
strutturazione di un nuovo movimento operaio e popolare in grado di imporre
un’altra economia ed una nuova configurazione geo/politica dei popoli del
Mediterraneo.
Non bisogna aver paura d’immaginare di valicare il limite
dell’esistente. Quindi la necessità di costruire l’Area Euromediterranea per
smontare la paura del salto nel buio che quotidianamente ci viene propinato a
reti unificate da un’informazione in malafede e spesso ignorante. Per
contrastare, inoltre, ed invertire nonché scalzare le presenti e nuove mire
neo-coloniali che producono migliaia e migliaia di immigrati ed emigrati,
affermando un progetto nel quale l’autodeterminazione dei popoli è la base per
un’alleanza internazionalista che non ricada o scambi l’internazionalismo nel
globalismo borghese, fatto di genti apolidi che se la prendono sistematicamente
con il loro vicino più povero come causa di tutti mali.
Per chiudere vorrei chiederle un giudizio sull’attuale
governo che ha compiuto alcuni timidi passi in discontinuità con il passato.
Il nostro governo è molto contraddittorio. Dal punto di
vista sociale si propongono le nazionalizzazioni, anche di settori strategici e
di società come Alitalia. Noi sosteniamo queste nazionalizzazioni. Per questo
motivo sabato 20 saremo in piazza per incalzare il governo su questo tema
strategico per l’economia italiana. A noi non interessa nulla se siano Di Maio
o il Movimento 5 Stelle a proporre le nazionalizzazioni. Le esigiamo come
misura necessaria a risollevare le sorti economiche dell’Italia e della
popolazione piegata da oltre vent’anni di neoliberismo sfrenato. Così come
siamo favorevoli allo sforamento dell’assurdo vincolo di bilancio imposto da
Bruxelles per implementare il reddito di cittadinanza ed abolire la legge
Fornero. Vigileremo affinché il governo operi per migliorare le condizioni di
vita della classe lavoratrice e della popolazione italiana. Dall’altra parte
invece ci sono ministri e forze di governo eversive, non solo sovversive. Che
non hanno a cuore le sorti del paese né buone relazioni internazionali. In
primis la Lega con le sue politiche razziste e xenofobe.
Altro esempio è costituito dalla recente partecipazione del
ministro dell’Economia e delle Finanze, Giovanni Tria, a una riunione con altri
14 ministri delle finanze di diversi paesi satelliti di Washington convocata
dal Segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Steven Terner Mnuchin, per
discutere del Venezuela. Un’ingerenza inaccettabile negli affari interni di
Caracas. Giovanni Tria, indicato come parte di quell’area ‘grigia’ del governo
cosiddetto giallo-verde, che risponde direttamente al presidente della
Repubblica Sergio Mattarella, altro non ha fatto che schierare l’Italia contro
un paese sovrano che tra mille difficoltà cerca di superare una difficile
congiuntura economica, e vincere una guerra economica senza quartiere scatenata
da quella che è, al momento, la prima potenza mondiale. Confermando che il
governo di Roma è quantomeno schiacciato sulle posizioni guerrafondaie di
Donald Trump.
Fatemi dire, infine, che questo paese non ha opposizione.
Perché il PD è il primo colpevole di tutte le leggi liberticide, le
privatizzazioni e le concessioni alle multinazionali. Pensiamo alle cosiddette
liberalizzazioni promosse da Pierluigi Bersani. I criminali bombardamenti
effettuati contro la Serbia quando a capo del governo italiano c’era Massimo
D’Alema. Questi dirigenti, che hanno svenduto e distrutto la sinistra italiana,
hanno spalancato le porte del paese alla Troika. Non hanno alcun legame con la
classe operaia e lavoratrice, perché rispondono solamente agli interessi di
determinati settori del capitale internazionale.
Questo è un paese che attualmente è senza governo ed
opposizione. L’unica opposizione è quella delle strade, l’opposizione è quella
dei pochissimi mass-media liberi e indipendenti, e quella di sindacati come
l’USB, dei movimenti sociali e di forze come Potere al Popolo che cercano di
organizzarsi e darsi una prospettiva. Una prospettiva che insieme a Eurostop e
altri movimenti indichiamo nell’uscita da Euro e NATO, per la creazione di
un’ALBA Euromediterranea, che abbia come modello l’esperienza latinoamericana.
Quindi nazionalizzazioni, sviluppo autodeterminato e democrazia economica a
carattere socialista.
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chi siamo
venerdì 14 settembre 2018
La lezione cilena 45 anni dopo.
Quarantacinque anni fa, i caccia militari dei traditori
delle Forze Armate cilene bombardavano la Moneda, il palazzo presidenziale, con
l’ordine di uccidere il Presidente Salvador Allende, medico e leader socialista
democraticamente eletto alla guida della coalizione Unidad Popular.
Nasceva quel giorno il regno del terrore, con torture,
uccisioni, e detenzioni di massa. Lo stadio di Santiago del Cile pieno di
detenuti politici, la DINA, famigerata
polizia politica o Villa Grimaldi, luogo delle peggiori torture, divennero le
icone di una dittatura sanguinaria del macellaio dagli occhiali neri e la
divisa inspiegabilmente dotata di fregi militari mai ottenuti sul campo.
L’11 Settembre del 1973, nel sangue e nel tradimento delle
sue forze armate (e di alcuni partiti della destra come la Democrazia Cristiana
che svolsero il ruolo di fronte interno del golpe made in USA), finiva
l’esperimento di un socialismo che raggiungeva il potere non con
l’insurrezione, fase finale tipica di un processo rivoluzionario, ma con il
cammino elettorale, proprio del disegno politico democratico-liberale.
Il governo di Unidad Popular aveva ottenuto importanti
successi sul piano sociale ed altrettanto decisa era stata la scommessa sul
futuro del suo Presidente. Allende infatti aveva scelto di marcare la storia
del Cile nel segno della giustizia sociale e dell’edificazione del socialismo:
nazionalizzò le miniere di rame (di cui il Cile era primo produttore ed
esportatore al mondo) e volle procedere con un piano generale di nazionalizzazioni
o, almeno, di riposizionamento dello Stato nei gangli strategici della vita del
paese, come le telecomunicazioni e la grande produzione alimentare, oltre che
le vie di comunicazione.
Il governo statunitense, guidato da Richard Nixon, non
poteva e non voleva tollerare ciò che avrebbe messo in discussione il dominio
statunitense e persino i suoi stessi avamposti militari strategici al Polo Sud.
La Casa Bianca, spinta dalle multinazionali americane come la At&T e la
United Fruit Company (che vedevano sfumare profitti altissimi) e desiderosa di
fornire una lezione valida per chiunque, decise quindi di promuovere il
rovesciamento violento del governo di Salvador Allende. L’ispiratore del Colpo
di Stato fu Henry Kissinger, criminale internazionale che, come altri, è stato
insignito del Nobel per la pace, forse come omaggio per le competenze maturate
nell’arte dello sterminio programmato.
L’11 Settembre 1973, con la vittoria dei golpisti agli
ordini del Generale Augusto Pinochet, il Cile smetteva di essere solo un paese
del Sud America per trasformarsi in un nuovo paradigma internazionale. Quello
che stabiliva, da lì in avanti, che i riti democratici vanno rispettati solo se
conviene; che le elezioni sono valide solo se vincono gli alleati degli Stati
Uniti e vanno annullate se invece vincono le forze popolari. Certo, all’epoca,
facendo ricorso all’arsenale ideologico della Guerra Fredda, di fronte ai
processi rivoluzionari si doveva invocare l’alternativa della democrazia
rappresentativa, i suoi riti elettorali, la divisione dei poteri e la relazione
tra elettori ed eletti mediata dai corpi intermedi. Ma, nel caso anche con
questo percorso si fosse affermata la sinistra – allora di origine socialista e
comunista - il cammino essere interrotto con ogni mezzo ed a qualunque prezzo.
Si determinava insomma, una volta e per tutte, che la
democrazia parlamentare è poco più che un gioco di società quando in ballo ci
sono il comando politico e il possesso delle risorse. Che gli Stati Uniti sono
detentori assoluti del destino di qualunque paese ovunque nel mondo, il quale
ha dinanzi a sé due opzioni: obbedire o perire.
Paraguay e Uruguay, Argentina e Brasile, Bolivia, Ecuador,
Venezuela, Nicaragua: l’intero sub continente latinoamericano è stato il teatro
a cielo aperto della rappresentazione più autentica del modello statunitense,
che prevedeva (e tutt’ora prevede con differenze metodiche, non di sostanza)
l’annullamento di ogni istanza indipendentista e socialista affinché Centro e
Sud America garantiscano, con il saccheggio continuato di ogni loro risorsa,
l’accumulo di ricchezze che, insieme alla supremazia militare internazionale,
definisce lo status di superpotenza degli Stati Uniti ed il suo comando
unipolare.
Le dittature militari fasciste latinoamericane furono anche
un laboratorio criminale, il primo esperimento su scala internazionale di un
sistema di polizia destinato al rastrellamento degli oppositori politici. Si
chiamò Plan Condor e vide la CIA coordinare le polizie di tutte le dittature
nella ricerca, cattura, tortura e uccisione di decine di migliaia di militanti
della sinistra e delle forze democratiche. come ricorda la tragica storia di
Colonia Trinidad, non mancò la collaborazione alle operazioni di ex gerarchi
nazisti riparati in Uruguay, Argentina a Paraguay; vi erano giunti grazie alle
forze armate statunitensi che, dopo la caduta del nazifascismo, decisero di
avvalersi di personaggi della ex Gestapo, la cui esperienza sarebbe tornata
utile in vista della lotta contro la crescente influenza del socialismo
internazionale.
Due generazioni di boia vennero formati allo scopo di
garantire la supremazia statunitense nel continente. L’addestramento degli
investigatori latinoamericani fu a carico dell’agenzia spionistica di Langley,
mentre la formazione dei torturatori e dei vertici militari venne effettuata
dal Pentagono, che la organizzò nella famigerata Escuela de las Americas con
sede a Panama.
Il Cile, poi, rappresentò anche uno spartiacque a livello
internazionale. Sul suo destino caddero maschere ed emersero verità occulte. Al
fianco di Allende, nel balcone della Moneda, si affacciò il Comandante Fidel
Castro, che nel corso della sua visita, con la sua consona preveggenza, volle
regalare al presidente cileno un fucile mitragliatore di fabbricazione russa,
AK-47, impugnando il quale Allende si recò all’ultimo combattimento della sua
vita contro i militari golpisti.
Molti anni dopo, da quello stesso balcone, in una foto che
racconta tutto quel che c’è da sapere circa i rispettivi personaggi e
l’incrocio di affinità ideologiche, si affacciavano insieme e sorridenti Papa
Woytila e il dittatore Augusto Pinochet, che ebbe nell’allora Pontefice, in
Ronald Reagan e soprattutto in Margareth Teatcher, i suoi migliori alleati e
amici.
Quarantacinque anni dopo, la lezione cilena ricorda a tutti
come le strategie di destabilizzazione dei governi considerati ostili dagli
Stati Uniti siano arma ricorrente ai quattro angoli del pianeta, ma racconta
anche che la loro riuscita ha bisogno di un clima internazionale e di forze
armate disposte al tradimento quali condizioni indispensabili per la riuscita
dei golpe.
Per questo, nonostante le pressioni, le sanzioni, gli
embarghi e l’isolamento, la propaganda mediatica e le minacce militari, con il
Venezuela e il Nicaragua i golpisti non ce la faranno. I tentativi di golpe
vincono solo dove la sinistra perde il contatto con il suo popolo, la capacità
di difendere le sue istituzioni, di arrendersi di fronte a quello che in
penombra può anche sembrare un gigante, ma che a veder bene risulta spesso
essere un nano sulle spalle di un altro.
Allora è bene conservare la memoria di quel medico
socialista che, con un elmetto in testa e un fucile mitragliatore in mano,
decise che dinanzi alla prepotenza imperiale si può perdere tutto ma non la
dignità; che si può morire, persino, pur di non mettersi in ginocchio.
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