Usa/Venezuela. Con la cessazione delle esportazioni
petrolifere verso gli Stati uniti, la Cina e l’ India, come avverte
l’agenzia Bloomberg sono pronte a farsi avanti per acquistare a buon
prezzo il petrolio di Nicolás Maduro. Anche la Corea del sud. Grandi
paesi affamati di energia. E in competizione, aperta o latente, con gli
Usa. Anche per questo Donald Trump sta puntando il tutto per tutto per
sbarazzarsi di Maduro
È per il petrolio e sul petrolio che si gioca l’incauta sfida
lanciata da Donald Trump al governo di Caracas. Le raffinerie
statunitensi sono le clienti principali del grezzo venezuelano. E sarà
sempre più evidente se la tensione, come sembra, dovesse innalzarsi, tra
Washington e Caracas. Perché, con la cessazione delle esportazioni petrolifere
verso gli Stati uniti, la Cina e l’ India, come avverte l’agenzia
Bloomberg sono pronte a farsi avanti per acquistare a buon prezzo il
petrolio di Nicolás Maduro. Anche la Corea del sud. Grandi paesi
affamati di energia. E in competizione, aperta o latente, con gli Usa.
Anche per questo Donald Trump sta puntando il tutto per tutto per
sbarazzarsi di Maduro. Per portare i flussi petroliferi verso gli Stati
uniti e arrivare a impadronirsi, di fatto, dei pozzi. E per tagliare le
forniture verso i paesi che considera avversari.
Peraltro, il Venezuela è tra le grandi potenze petrolifere mondiali –
nel 2019 è il presidente di turno dell’Opec – e, pertanto, ogni
variazione significativa della sua produzione e delle sue esportazioni
ha più che evidenti riflessi sul già instabile mercato mondiale del
greggio. Anche per questo, per il momento almeno, l’arroganza di Trump
non s’è spinta fino al punto di non cogliere le conseguenze,
innanzitutto per la stessa economia statunitense, di un’escalation
incontrollata, dall’esito non necessariamente positivo per gli Usa, del
conflitto aperto con Caracas, tanto che non ha ancora bloccato l’export
verso il Venezuela dei prodotti americani per diluire il denso petrolio
venezuelano, né l’import verso le raffinerie statunitensi.
A dispetto dei modi spicci con cui la Casa bianca, e ancor più Mike
Pompeo, hanno benedetto l’autonomina a presidente di Juan Guaidó e hanno
liquidato come illegittime le ineccepibili misure di reazione decise da
Maduro nei confronti della rappresentanza diplomatica americana, è
evidente che Trump si tiene pronto sia allo scenario di un rapido
precipitare della situazione, con l’eliminazione di Maduro, sia allo
scenario opposto, l’ennesima prova, da parte di Maduro, di una capacità
di tenuta e di risposta, grazie al sostegno di una parte significativa
della popolazione. Trump è molto più che uno spettatore interessato. L’America e i suoi alleati della regione si stanno dando parecchio da fare perché prevalga il primo scenario.
Che si vada verso una lunga e cruenta guerra civile, e non verso un
rapido esito della prova di forza, è il terzo scenario possibile. Forse
il più probabile. Con effetti drammatici su un paese stremato, ma anche
con enormi conseguenze nella regione e nel mondo. Oltre ai riflessi sul
mercato energetico e ai rimbalzi sull’economia mondiale, la lacerazione
di un paese chiave come il Venezuela avrebbe ripercussioni domino nel
continente latino, fino ad arrivare agli stessi Stati Uniti. Gli Usa nel 2017 hanno importato 674.000 barili al giorno di petrolio dal Venezuela, il 46% dell’export totale – fonte eia.govAssurdamente Trump cerca con infantile e crudele ottusità
di contenere le migrazioni provenienti dall’America latina con stupidi
quanto inutili muri, e intanto cerca di delegittimare l’opposizione al
Congresso e trova sponda in personaggi come Bolsonaro e Macri nel
tentativo di ripristinare in America latina vecchie e odiose forme
autoritarie e liberiste, con l’eliminazione politica e, se necessario
fisica, di quel che resta delle leadership progressiste. Operazione
indecente politicamente che produrrà affamati e disperati disposti a
tutto per emigrare. Dove? Negli Usa, naturalmente. Aprendo a Cuba, Barack Obama aveva dato il segnale di un inizio di cambiamento,
nella direzione di un superamento della condizione del continente
latino-americano come «cortile di casa». Proprio nei confronti di Cuba,
poi nei confronti del Messico, quindi verso il Nicaragua e ora verso il
Venezuela si è diretta l’opera di disfacimento del faticoso lavoro
diplomatico condotto da Obama.
La novità messicana della presidenza di López Obrador “Amlo” indica che
la vis distruttiva di Donal Trump trova considerevoli ostacoli. Mentre
la resilienza di Cuba è straordinaria. Ora si vedrà a Caracas.
È importante che il tentativo di rovesciare Nicolás Maduro non
riesca, non solo per il Venezuela ma per la tenuta di quel che resta in
piedi di un’America latina padrona del suo destino.
Compie sessant’anni la Rivoluzione Cubana. Sessant’anni
orsono, guerriglieri chiamati Barbudos divennero liberatori. Un’isola che era
diventata un bordello a cielo aperto, con le fiches che valevano più degli
esseri umani, ascoltò la deliziosa sinfonia del passo guerrigliero, che
superava con la velocità di cui a volte si picca la storia, un’epoca di
ingiustizia, violenza, sfruttamento ed ignominia.
Cuba era un’isola cubana diventata proprietà statunitense,
gestita da Fulgencio Batista, un sergentino ignorante quanto sanguinolento,
messo sul trono dai feudatari di Miami. Ma Fidel Castro, avvocato cubano
dall’oratoria brillante edalla visione
profonda, decise di fare della libertà di Cuba la sua unica causa e condannò lo
sbirro alla sconfitta eterna.
Sessant’anni fa, con l’arrivo delle truppe guerrigliere,
L’Avana divenne una città cubana. I grattacieli delle banche si apprestarono a
divenire ospedali e le strade dove si respirava terrore divennero residenza dei
giusti. Gli architetti della rinascita vestivano verde olivo, portavano barbe
incolte e sfrontatezza, sprezzo per il pericolo e acume tattico.
Gli occhi del mondo dovettero posarsi sulla bellezza
autentica, quella che disegna i volti degli ultimi quando diventano i primi.
Persino il vento decise di cambiare direzione e dalla Sierra Maestra iniziò a
soffiare forte verso Miami, condannata a divenire immondezzaio della storia,
incubatrice degli avanzi di ogni tirannia, fogna contenente ogni terrore.
Mafiosi, ladri e biscazzieri dovettero fuggire in fretta
dall’Avana, divenendo così i primi balseros. Le strade fecero luce, i sorrisi
illuminarono l’incedere liberatore. Persino negli anfratti del porto l’odore
che si respirava era diverso. La capitale, tornata cubana, espettorava, i suoi
polmoni si aprivano all’aria nuova proveniente dalla Sierra Maestra.
Quel 1° Gennaio del 1959, Cuba divenne qualcosa più grande
di se stessa: smise di essere solo un’isola e divenne sinonimo di impossibile,
parafrasi di liberazione, auspicio e speranza di tutte le vittime
dell’ingiustizia e dello sfruttamento ovunque sparse. Il Dio Denaro venne messo
agli ordini degli uomini e delle donne divenuti Dei della ribellione, il futuro
smise di essere termine proibito nelle declinazioni delle speranze. I fucili si
girarono, i sadici in uniforme fuggirono o si arresero; i giusti con barbe
lunghe e valori alti s’incaricarono di mettere le cose al loro posto: gli ultimi
diventarono primi, perché la categoria degli ultimi veniva abolita.
A Cuba in sessanta anni sono avvenuti mutamenti dell’ordine
e del disordine. Sono state ribaltate le priorità, è stato sovvertito l’ordine
logico, rivoluzionati persino lo spazio e il tempo. Le persone hanno ragione
delle cose e il ragionare sconfigge il pensiero debole. Un nuovo vocabolario si
è imposto e l’Io si pronuncia Noi. La gente è diventata popolo e il popolo è
divenuto nazione.
Da sessanta anni a Cuba il tempo litiga con le lancette
degli orologi. Lui preferisce farsi scandire dalla sovranità riconquistata e
difesa. La nozione delle ore è stata superata da quella del cambiamento,
nessuna lancetta può stabilire il quando, ma solo il dove e il come. L’unica
ora è quella legale.
Da sessant’anni immersa in un calice di passioni, dove non
trova spazio il veleno del nemico, Cuba si picca di essere il primo territorio
libero d’America. E’ così, lo è stato e continua ad esserlo, perché quell’isola
a forma di coccodrillo, esportatrice di valori e incubatrice di sogni, resiste,
cambia, vince e sferra un ghigno di cubania di fronte ai poderosi.
Da quasi sessanta
anni subisce il più criminale e lungo blocco economico e commerciale della
storia, al quale ha risposto con i migliori risultati sociali del continente.
Ha sopportato il terrorismo ed è divenuta bastione inespugnabile, luogo sicuro
per chiunque. Ha versato sangue in Africa e in America Latina, liberando popoli
e paesi e ancora non conosce l’onta della sconfitta. Produttrice di emozioni e
scontri ideologici, è stata odiata e osteggiata, temuta, rispettata, tradita e
amata; nulla della sua storia è rimasto sottotraccia, immunizzata da banalità e
indifferenza.
Sessanta anni sono un tempo di ragione e pacatezza. Non
chiudono l’ardore ma misurano la ragione. Non s’arrampicano sui fasti,
preparano il da farsi. In alcuni casi sono fase di ricordi del passato e timori
per il futuro. Arrivata alla sua piena maturità, Cuba non è il paradiso
terrestre che qualcuno immagina, meno che mai l’inferno che l’impero delle
menzogne racconta.
Cuba è semplicemente il luogo meno diseguale della terra.
Quello nel quale l’uguaglianza nei diritti è sancita dalla legge e rispettata
ogni giorno. Approdo sicuro per ogni ribelle, esempio e scuola di ogni
insurrezione, università vivente di sovranità e indipendenza, Cuba esporta
medici e vaccini, saggezza e sacrifici. E’ sinonimo di resistenza, è luogo dove
tutto è in movimento. Un movimento indirizzato verso il perfezionamento di
quanto costruito, verso l’ottimizzazione di quanto realizzato, perché le nuove
sfide hanno bisogno di nuove sfrontatezze.
Sessant’anni dopo la sua vittoria, Cuba si regala la sua
nuova Costituzione. Un manifesto di principi e di valori scritto da milioni di
cubani che scandiscono nella Carta Magna della loro nazione l’idea di un paese
diverso dagli altri, destinato dalla storia ad aprire cammini inesplorati.
Fidel, il suo Comandante in Capo, statista fra i più grandi,
capo di popolo tra i più amati, Presidente tra i più rispettati e avversario
tra i più temuti, pur se nullatenente in vita ha lasciato una eredità immensa:
Cuba è socialista e il socialismo è per sempre, perché rivoluzionare il mondo è
l’unico modo di salvarlo.
c/o Stadio Comunale Via Monte Nero - 60019 SENIGALLIA - AN
indirizzo email: italiacuba.senig@gmail.com
tel. 333/3806715 ALBINELLA
tel. 347/9721406 BARBARA.
STORIA DEL CIRCOLO DI SENIGALLIA:
Il circolo nasce nel 1997 fondato da Sado Sadovski, la registrazione ufficiale avviene nell’ottobre del 1999.
Nel 1998 protocollo di gemellaggio tra la USL 4 di Senigallia e la Provincia di Sancti Spiritus.
Nel marzo 99 stipula di accordo tra Ospedale di Senigallia e Ospedale Camilo Cienfuegos di Sancti Spiritus.
Nell’aprile 99 invio di materiale ospedaliero e materiale didattico per 500 kg.
Nel 12/99 spedizione di 600 kg di materiale per le pulizie ospedaliere, medicinali e materiale didattico.
Nel 2000 viene a mancare il segretario: Sado Sadovski.
Nell’anno 2002 inizio collaborazione con l’ANPAS dell’Emilia Romagna e il Circolo Italia-Cuba di Ravenna nella persona di Rodolfo Dal Pane e l'avvio del progetto di informatizzazione nelle province di Camaguey e Sancti Spiritus che ci vede tutt'ora impegnati con l'invio e l'installazione di server, computer, monitor e stampanti in scuole, ospedali, musei e municipi cubani.