Evo
Morales è giunto in Messico a bordo di un aereo militare inviatogli da
Andrès Manuel Lopez Obrador. Perù ed Ecuador hanno negato il diritto di
sorvolo all’aereo messicano e la cialtronata rende bene l’idea di cosa
siano i governi di Lima e Quito. Evo è stato costretto all’esilio per
fermare la caccia all’uomo che i golpisti avevano previsto, che sarebbe
terminata solo con la morte del presidente legittimo della Bolivia e del
suo vice, Alvaro Garcia Linera.
La stampa ufficiale e i suoi megafoni europei parlano di dimissioni,
ma tra dimettersi ed essere costretto a dimettersi c’è una differenza
che si chiama Colpo di Stato. E quello avvenuto in Bolivia è,
semplicemente, indiscutibilmente, un colpo di Stato. Solo che chiamarlo
con il suo nome otterrebbe una condanna da parte di tutti, anche di
quelli che ora si fregano le mani, quindi è gara aperta per i possibili
eufemismi con cui definire quanto accaduto.
Non c’è stata nessuna
irregolarità nel conteggio dei voti alle elezioni, lo confermano esperti
statunitensi. Ma hai voglia a contare voti, se il voto che decide è
quello di un altro Paese. Hai voglia a districarti nelle maglie della
Costituzione se viene violata. Hai voglia a pretendere che gli organismi
internazionali svolgano il proprio ruolo se agiscono con lo strabismo
dell’OSA che chiede il rispetto del mandato presidenziale in Ecuador ma
non in Bolivia. Stati Uniti e multinazionali degli idrocarburi ordinano
il menù che camerieri locali in abiti civili e uniformi militari
consegnano al tavolo.
Un presidente legittimo, che ha il 47% dei
voti, è stato obbligato a dimettersi. La democrazia muore a La Paz e chi
dovrebbe difenderla, militari e polizia, sono i primi a seppellirla
insieme alla dignità delle loro divise. Le orde fasciste della destra
boliviane sono state scatenate per diffondere il terrore con lo stesso
identico copione utilizzato in Nicaragua nel 2018: persone prese,
torturate, denudate ed umiliate obbligate al peggio; stupri, assassinii,
case messe a ferro e fuoco, assalti alle istituzioni, spargimento del
terrore in ogni dove. Perché quando il mandante è lo stesso il copione è
identico.
La violenza ha trasformato la minoranza in maggioranza.
Non è necessario essere fedeli al governo, basta essere indigeni per
subire la ferocia più atroce. Perché questo colpo di Stato è, tra le
altre ignominie, una vendetta etnica. Contro un presidente che aveva
fatto dell’amalgama etnica e della mediazione tra i diversi interessi di
classe un segno della riconciliazione nazionale, ferita da un passato
di presidenti cialtroni specializzati nell’ordinare ai militari di
sparare sugli indigeni per tenere aperti i portafogli dei privilegi dei
bianchi. I militari sono stati parte attiva, anche se defilata, del
progetto di colpo di Stato. Hanno recitato la parte prevista, avvertendo
il legittimo presidente che non sarebbe stato difeso dalla minaccia di
ucciderlo, di sterminare i suoi ministri e la sua famiglia. Gli hanno
ordinato e non suggerito di dimettersi, come voleva la destra; di
annullare il voto come voleva la destra; di cacciare il tribunale
elettorale, come voleva la destra. Insomma, se voleva salvare il paese
poteva scegliere: obbedire alla destra senza i militari od obbedire alla
destra con i militari. Perché la destra è, prima di ogni altra cosa, lo
strumento che gli Stati Uniti adoperano per prendersi un Paese. E i
militari obbediscono. Non alla Costituzione boliviana, ma al Comando Sud
dell’US Army.
L’odio
razzista nei confronti del primo presidente indigeno della Bolivia è la
manifestazione visibile di un conflitto impossibile da sopire: quello
tra i margini di profitto delle multinazionali estrattive e la
sopravvivenza della parte più umile della popolazione, che coincide con i
fondatori e proprietari di quella terra benedetta e condannata dalle
risorse che ospita. Se Evo Morales non avesse trasformato la Bolivia in
un paese degno di tale aggettivo non sarebbe stato deposto. Se non
avesse avuto l’ardire di nazionalizzare le risorse e di tagliare le
unghie delle multinazionali che su quelle risorse banchettavano, non
avrebbe subito un colpo di Stato. Se non avesse creato e soprattutto
distribuito ricchezza alla popolazione più umile, non avrebbe subito
l’odio dei ricchi.
Il colpo di Stato in Bolivia non ha a che vedere con il voto ma con
il gas, il litio e le foglie di coca. E’ cominciato da oltre un anno,
per volontà e denaro dei gusanos cubano americani della
Florida, in testa il senatore Ted Cruz e Bob Menendez, compari di ogni
vergogna e la collaborazione della DEA, principale vigile del traffico
dei narcotici. La DEA, che venne cacciata da Evo Morales, è lo strumento
che gli USA utilizzano per penetrare gli apparati di sicurezza dei
distinti paesi: con la storiella della lotta alla droga, Washington
infiltra gli apparati militari dei paesi dove si trovano le risorse che
gli servono ma che gli USA non producono.
I vertici castrensi
boliviani si sono venduti per quattro spiccioli, auto assegnandosi il
valore lordo delle loro luride uniformi. Hanno giurato fedeltà alla
Costituzione ma il loro conto corrente subiva il fascino straniero da
diversi anni. La frequentazione, iniziata nei tempi delle scuole di
specializzazione militari statunitensi, si è andata rinsaldando negli
ultimi anni. Il Capo della polizia boliviano, Vladimir Calderon, è stato
attaché militare della Bolivia nella ambasciata di Washington fino al
Dicembre del 2018. Il Comandante delle Forze Armate Boliviane è stato
anch’egli attaché militare nell’ambasciata boliviana a Washington dal
2013 al 2016. Sono questi due casi, forse i più noti, che evidenziano
uno dei problemi maggiori per le democrazie latinoamericane, ovvero
l’ingerenza pesante, diretta e senza limiti degli Stati Uniti. Quelli
dell’abbordaggio da parte di FBI, CIA ed NSA dei diplomatici e dei
militari presenti nelle ambasciate dei paesi ritenuti “delicati” è
prassi consolidata.
E’ uno dei casi nei quali i rappresentanti
dell’apparato militare e di sicurezza latinoamericani intraprendono una
relazione con gli apparati di sicurezza del paese anfitrione e, da
rappresentanti degli interessi del loro paese presso gli Stati Uniti, si
trasformano in rappresentanti degli interessi degli Stati Uniti nel
loro paese. Con gli stessi scopi Washington propone cooperazione
nell’ambito militare e la formazione delle gerarchie militari e dei
ranghi principali della magistratura viene svolta negli Stati Uniti. Non
solo: da almeno 15 anni gli USA si incaricano anche della formazione di
studenti universitari ritenuti particolarmente adatti al ruolo di
leader politici. Comprano con master, tutoli, cattedre e dollari la
fedele collaborazione dei servi utili, che in cambio di tanto affetto
dovranno poi adoperarsi per portare a termine il lavoro sporco che gli
viene comandato. Militari, giudici, leader politici e dirigenti
finanziari: sono le figure sulle quali Washington investe per la
costruzione di autentiche quinte colonne all’interno dei paesi oggetto
degli interessi statunitensi.
Nel
caso di magistrati e militari è inutile tergiversare. Si può scegliere
l’aggettivazione, si possono riscontrare attenuanti, ma si chiama
tradimento. Si vendono per denaro, per carriera, per frustrazione o per
smodata ambizione; alcuni si vendono anche solo per il piacere di
compiacere, per l’attitudine all’inginocchiamento e in questo caso sono
quelli che si vendono a prezzi di saldo, cartellino adeguato per dignità
a stralcio. Il tradimento è una categoria della politica e della guerra
e appartiene dunque all’ambito civile come militare. Ma è proprio
quello militare, per definizione destinato alla difesa della patria,
della sua integrità territoriale e delle sue ricchezze che, quando si
verifica, colpisce maggiormente. Tanta passione per divise, stivali e
parate, berretti e medaglie, mostrine e sbatter di tacchi e poi,
semplicemente, per niente o per poco ci si vende, ricchi di fellonia
sperando che si quoti in dollari.
Nel paese continuano gli scontri tra polizia e i sostenitori della
democrazia costituzionale. I gruppi di fascisti e razzisti che nei
giorni scorsi scorazzavano per il paese, se la sono data a gambe di
fronte agli indigeni che scendevano sulla capitale, lasciando alla
polizia golpista il compito di sgrossarne le fila. Polizia che ora ha
trovato di nuovo le sue motivazioni in dollari per uscire dalle caserme
ed andare a riportare l’ordine, che comporta anche l’aprire il fuoco a
bruciapelo contro i manifestanti.
La soluzione politica resta una
incognita seria: se non si vuole far scattare il ripudio internazionale
contro il golpe e continuare con la storiella delle elezioni si deve
tornare al voto. Per farlo c’è però bisogno del voto favorevole di
Camera e Senato, entrambi controllati dal MAS di Evo Morales. E’ tutto
da vedere che siano disposti a votare: se non indiranno il voto, ai
golpisti toccherebbe sciogliere le Camere d’imperio. Ma la maggioranza
potrebbe poi scegliere il terreno della Camera usurpata, sul modello
venezuelano. Intanto, la tendenza a passare dal dramma al melodramma è
sempre presente e succede che una improvvisata senatrice, Jeanine Anez,
avvocato e moglie di un parlamentare colombiano, acerrima nemica di Evo
ma nota soprattutto per la sua competenza sulle messe in piega senza
piastra, si è autonominata capo dello Stato in funzione temporanea. Lo
ha fatto senza il voto della maggioranza dei parlamentari ma lei non
vede l’ora di assumere il ruolo di abusiva. Piccole Guaidò crescono.
Stando alla Costituzione, le elezioni indette da Evo dovrebbero darsi
entro 90 giorni, ma probabilmente faranno prima a scrivere un decreto
che privatizza gli idrocarburi e - di questo si può avere certezza -
saranno “miracolosamente” la Chevron e la Esso a vincere le gare per il
saccheggio. Intanto i militari hanno grande appetito e tasche bucate,
chiedono più soldi e fremono per mettersi alla testa del Paese: vogliono
decidere quando e con che regole mandare i boliviani al voto. O magari
farglielo dimenticare per un bel pezzo.
giovedì 14 novembre 2019
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento