da Cuba, un'isola che resiste
Le
notizie con cui ci siamo svegliati la mattina del sette dicembre, mi
hanno lasciato senza parole. Difficile trovare una spiegazione
convincente per i risultati elettorali di Francia e Venezuela in cui le
destre hanno stravinto. Ma una frase mi andavo ripetendo come un mantra,
una frase che contiene una verità lampante: “non si può aver fiducia
nell’imperialismo neanche un pochino così, niente (no se puede confiar
en el imperialismo ni un tantito así, nada)”.
L’ha pronunciata un Ernesto Guevara furente e addolorato subito dopo aver saputo che la statua di Patrice Lumumba in Africa, era stata distrutta. Per il Che, il movimento di decolonizzazione dell’Africa era come una resurrezione degli sfruttati, l’ora della verità negli equilibri del mondo. Invece abbiamo dovuto assistere, in pochi anni, alla morte violenta di tutti i leaders che avevano incendiato quel continente, in Lumumba, in particolare, il Che aveva individuato un grande leader in grado di trasformare il Congo.
Quella frase del Che, pronunciata in anni lontani e in un altro contesto, mi sembra oggi l’unico commento possibile agli avvenimenti recenti.
Mancano pochi giorni al 17 dicembre, il giorno in cui ci si è illusi che la grande superpotenza imperialista, nella figura del suo primo presidente di origini africane, potesse trattare alla pari con uno storico combattente rivoluzionario alla guida della piccola Cuba, la più irritante spina nel fianco per il capitalismo, il neoliberismo, il neocolonialismo, l’imperialismo e per tutti gli ismi che alludono all’esclusione, al classismo, allo sfruttamento del ricco sul povero, del potente sull’indifeso. Ci si illudeva che aver riconosciuto il fallimento di una politica intimidatoria e punitiva portasse come conseguenza la sensatezza di un tavolo di negoziato senza pregiudizi e senza tranelli.
Per un attimo, abbiamo dimenticato quell’avvertimento del Che.
In questi mesi, il problema dei migranti cubani (ormai si parla di più di quattromila) ammassati in Costarica alle frontiere con Panama e Nicaragua, minaccia di diventare esplosivo; e mentre ci duole che questi cittadini (qual è la percentuale su 11 milioni di abitanti?) dimostrano di essere disposti ad affrontare le più crudeli odissee pur di mettere piede negli Stati Uniti e godere di tutti i privilegi di cui –unici al mondo- godono in quanto prova provata di quanto è duro vivere nell’”inferno” castrista; mentre ci duole questo triste spettacolo, ci chiediamo anche come sia possibile che i potenti Stati Uniti non mostrino la minima intenzione di mandare una nave, qualche aereo, una carovana di autobus, a raccogliere quei cubani scontenti e a portarli nella loro patria, generosa con chi fugge da una rivoluzione marxista. E ci chiediamo soprattutto come ci sia chi non veda la scandalosa ipocrisia della politica estera USA.
E’ di qualche settimana fa lo smacco elettorale della sinistra argentina, un paese che ha avuto il privilegio (a mio parere) di essere retto per una decina di anni prima da Néstor Kirchner e poi da Cristina Fernández. Contro le loro presidenze si è scatenata una offensiva finanziaria disgustosa, una campagna mediatica ipocrita.
Adesso in Venezuela, dopo tentativi di ogni genere, la destra ce l’ha fatta. Il prossimo in agenda, temo, sarà il Brasile di Dilma Roussef.
Così si cerca (con successo) di minare il cammino verso l’integrazione latinoamericana, una delle più grandi novità e speranze per il mondo in questi primi anni del terzo millennio. Il pericolo più grave per il controllo imperialista del mondo.
Quali che siano le colpe, gli errori, gli insuccessi di questi governi, è sconcertante constatare in che mari procellosi, instabili e insidiosi navighi l’utopia di un mondo dell’inclusione, della sovranità dei popoli, della non ingerenza, della giustizia e della uguaglianza.
L’ha pronunciata un Ernesto Guevara furente e addolorato subito dopo aver saputo che la statua di Patrice Lumumba in Africa, era stata distrutta. Per il Che, il movimento di decolonizzazione dell’Africa era come una resurrezione degli sfruttati, l’ora della verità negli equilibri del mondo. Invece abbiamo dovuto assistere, in pochi anni, alla morte violenta di tutti i leaders che avevano incendiato quel continente, in Lumumba, in particolare, il Che aveva individuato un grande leader in grado di trasformare il Congo.
Quella frase del Che, pronunciata in anni lontani e in un altro contesto, mi sembra oggi l’unico commento possibile agli avvenimenti recenti.
Mancano pochi giorni al 17 dicembre, il giorno in cui ci si è illusi che la grande superpotenza imperialista, nella figura del suo primo presidente di origini africane, potesse trattare alla pari con uno storico combattente rivoluzionario alla guida della piccola Cuba, la più irritante spina nel fianco per il capitalismo, il neoliberismo, il neocolonialismo, l’imperialismo e per tutti gli ismi che alludono all’esclusione, al classismo, allo sfruttamento del ricco sul povero, del potente sull’indifeso. Ci si illudeva che aver riconosciuto il fallimento di una politica intimidatoria e punitiva portasse come conseguenza la sensatezza di un tavolo di negoziato senza pregiudizi e senza tranelli.
Per un attimo, abbiamo dimenticato quell’avvertimento del Che.
In questi mesi, il problema dei migranti cubani (ormai si parla di più di quattromila) ammassati in Costarica alle frontiere con Panama e Nicaragua, minaccia di diventare esplosivo; e mentre ci duole che questi cittadini (qual è la percentuale su 11 milioni di abitanti?) dimostrano di essere disposti ad affrontare le più crudeli odissee pur di mettere piede negli Stati Uniti e godere di tutti i privilegi di cui –unici al mondo- godono in quanto prova provata di quanto è duro vivere nell’”inferno” castrista; mentre ci duole questo triste spettacolo, ci chiediamo anche come sia possibile che i potenti Stati Uniti non mostrino la minima intenzione di mandare una nave, qualche aereo, una carovana di autobus, a raccogliere quei cubani scontenti e a portarli nella loro patria, generosa con chi fugge da una rivoluzione marxista. E ci chiediamo soprattutto come ci sia chi non veda la scandalosa ipocrisia della politica estera USA.
E’ di qualche settimana fa lo smacco elettorale della sinistra argentina, un paese che ha avuto il privilegio (a mio parere) di essere retto per una decina di anni prima da Néstor Kirchner e poi da Cristina Fernández. Contro le loro presidenze si è scatenata una offensiva finanziaria disgustosa, una campagna mediatica ipocrita.
Adesso in Venezuela, dopo tentativi di ogni genere, la destra ce l’ha fatta. Il prossimo in agenda, temo, sarà il Brasile di Dilma Roussef.
Così si cerca (con successo) di minare il cammino verso l’integrazione latinoamericana, una delle più grandi novità e speranze per il mondo in questi primi anni del terzo millennio. Il pericolo più grave per il controllo imperialista del mondo.
Quali che siano le colpe, gli errori, gli insuccessi di questi governi, è sconcertante constatare in che mari procellosi, instabili e insidiosi navighi l’utopia di un mondo dell’inclusione, della sovranità dei popoli, della non ingerenza, della giustizia e della uguaglianza.
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