Enrique Lòpez Oliva - il manifesto del 31/12/15
Quali sono le conseguenze della fine della più che
cinquantennale guerra fredda tra Washington e l’Avana e della distensione
iniziata un anno fa? Quali sono le prospettive e quali gli ostacoli? Quale il
ruolo dei cubano-americani e della Chiesa cattolica? Su questi temi Enrique
López Oliva, professore di storia delle religioni, indipendente di formazione
cristiana e collaboratore del «manifesto» si confronta con questa intervista
col professore di economia di origine afro-cubana, esperto di politica statunitense
(sull’argomento ha scritto cinque libri) e membro del Partito comunista di
Cuba, Esteban Morales Dominguez.
È passato un anno dalla storica dichiarazione dei due
presidenti, Barak Obama e Raúl Castro, sulla decisione di iniziare un processo
di distensione e dialogo politico. Come valuti i risultati fino a qui ottenuti?
Una valutazione positiva. Alla fine, dopo più di
cinquantanni di guerra fredda, gli Stati Uniti hanno riconosciuto Cuba come un
interlocutore e sulla base delle condizioni poste dall’Avana. Ovvero di
discutere nel pieno rispetto della sovranità e indipendenza nazionale, dunque
su una base di eguaglianza. Ora è importante che il dialogo politico continui e
si rafforzi. In modo che l’anno prossimo, l’elezione di un nuovo presidente statunitense
non possa provocare un roll back, una marcia indietro. Ed è su questa base che
sta lavorando il governo cubano.
Non pensi che sia un paradosso che Cuba, primo paese
socialista dell’America latina, che professa un ateismo di stato, sia ricorso
al Papa e alla Chiesa cattolica per — usando le parole di Francesco — «creare
un ponte con Washington»?
L’atteggiamento del governo cubano verso la religione e, in
particolare, verso la Chiesa cattolica è andato progressivamente cambiando.
Fino a giungere a un riavvicinamento con il vertice cattolico cubano che ha
dato buoni frutti. Lo dimostra il fatto che Cuba è l’unico paese della regione
che ha ricevuto la visita di tre pontefici. L’ultimo, Francesco, ha avuto un
impatto positivo, sia per la sua politica in favore dei poveri, sia per la
volontà di riformare la Chiesa. Per questo ha potuto svolgere un ruolo chiave
nel favorire l’inizio della distensione con gli Usa.
Anche nell’atteggiamento della comunità cubano-americana,
della Florida soprattutto, è in corso un importante cambiamento. Ora buona
parte della diaspora appoggia la distensione, tanto che alcuni imprenditori di
origine cubana si dicono pronti a ritornare e investire a Cuba. Qual è la tua
valutazione?
Sono d’accordo. Certo vi è una parte della comunità
cubano-americana di destra che si oppone. Ma la maggioranza ha cambiato e
svolge un ruolo positivo: ha cessato di essere uno strumento nella politica di
aggressione a Cuba ed è favorevole alla politica di distensione e dialogo con
l’Avana. Dunque si è convertita in un gruppo di appoggio alla linea di Obama.
Vi sono imprenditori, come la famiglia Fanjul che sono favorevoli a
ritornare e investire nell’isola. E lo fanno anche per i loro interessi, Cuba è
l’unico paese dove non devi affrontare la concorrenza dei nordamericani.
Il presidente Obama si è detto disponibile a viaggiare a
Cuba l’anno prossimo e alcuni analisti dicono che si sta trattando per una
visita ad aprile. Che impatto pensi possa avere questa visita?
La mia opinione è che tale viaggio sia più importante per
Obama –per il prestigio che ne può trarre– che per Cuba. Per questa ragione, mi
sembra che il suo atteggiamento, ovvero porre la condizione di poter dialogare
con il popolo cubano, in realtà con la dissidenza, sia un po’ uno sfoggio di
prepotenza. Ritengo dunque che la posizione del governo cubano sia giusta: se
Obama vuol venire per dialogare è il benvenuto, ma non se vuole intromettersi
nella politica interna del Paese. Se insiste nel mettere la questione della
democrazia, dei diritti umani e civili nel cesto delle trattative, allora Obama
deve essere disposto a discutere anche della situazione dei diritti umani e
civili negli Stati Uniti, situazione che, soprattutto per quanto riguarda i
cittadini afrodiscendenti, non è esente da critiche.
All’inizio del 2016 è previsto il Congresso del Partito
comunista. Tu pensi che, dopo le riforme economiche in corso, venga affrontata
la questione delle riforme politiche? Specie per preparare il terreno al cambio
generazionale, visto che il presidente Raúl ha annunciato che lascerà nel
febbraio 2018?
Non credo che a Cuba siano in corso cambiamenti nella linea
economica e sociale senza che questi comportino riflessi politici. Certo non
viene messo in discussione il socialismo, anzi viene specificato che si vuole
costruire un «socialismo prospero e sostenibile». Credo che Cuba si stia
avviando verso un’economia mista con investimenti stranieri e con il controllo
statale della macroeconomia. Il prossimo Congresso del Pcc sarà assai
importante. Per tre motivi. Innanzi tutto per la nuova fase delle relazione con
gli Stati Uniti e per quello che comporta. In secondo luogo, come hai detto,
per il cambio generazionale in vista. E infine perché stiamo cercando di
costruire un nuovo modello economico.
Sulla nuova fase di distensione con gli Usa, essa non è
certo un processo lineare e privo di ostacoli. Anzi. Siamo in attesa di nuove
misure da parte del presidente Obama, ma il bloqueo/embargo rimane in vigore.
Come pure l’occupazione della base di Guantanamo. Tu pensi che sia possibile
rimuovere questi e altri ostacoli per un pieno ristabilimento delle relazioni
tra i due paesi?
È vero, Obama ha reiterato la sua richiesta che il Congresso
metta fine all’embargo. Ma in realtà, se volesse, il presidente ha poteri tali
da poter alleviare questo blocco finanziario, economico e commerciale in attesa
che negli Usa si concretizzi uno schieramento politico per eliminarlo. Io
penso, e l’ho scritto, che Obama divida in due l’embargo. È pronto a misure
unilaterali — come quelle del 18 settembre scorso — che intaccano l’embargo con
lo scopo di rafforzare quella che egli definisce società civile cubana, ma che
in realtà, nei piani dei gruppi di potere nordamericani, dovrebbe essere un
settore sociale capace di opporsi alla politica socialista del governo cubano
e, in prospettiva, di creare un’alternativa politica. Obama, invece, non sembra
disposto a intervenire con misure che possano rafforzare l’economia statale di
Cuba, dunque che aiutino il governo. In sostanza, mi sembra che, pur con mezzi
diversi e pur negando che questo sia il suo l’obiettivo, continui la politica
di voler cambiare governo, di voler mettere fine al socialismo cubano. Gli
altri ostacoli all’avanzare delle trattative, come ha specificato il presidente
Raúl sono: la base di Guantanamo, mantenuta illegalmente, che costituisce come
un pugnale infisso nella schiena di Cuba; il proseguire degli attacchi
mediatici attraverso Radio e Tv Martí — che mantiene la sua linea aggressiva
anche se ne hanno cambiato la direzione– e il continuare a stanziare fondi
–quest’anno mi sembra 300 milioni di dollari– per finanziare la dissidenza
cubana. E infine la questione delle compensazioni per i beni nordamericani
confiscati dalla Rivoluzione dopo il suo trionfo nel 1959. A queste rischieste
Cuba risponde con la richiesta di risarcimento del «costo dell’embargo», ovvero
dei danni materiali subiti a causa del blocco finanziario, economico e
commerciale più i danni «umani», le vittime causate dalla tentata invasione
della Baia dei Porci, le morti causate dagli attentati collegabili alla Cia, i
danni subiti a causa della scarsezza di medicinali ecc. Naturalmente, anche
questa questione ha una base politica: basta essere d’accordo a voler risolvere
il contenzioso e le soluzioni si troveranno.
(a cura di Roberto Livi)
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