di Fabio Marcelli
Una delle prime preoccupazioni degli assassini è quella di
far sparire i testimoni dei loro crimini. Trattandosi di crimini politici su
vasta scala, come il recente golpe in Bolivia contro Evo Morales con annessi
massacri, si tratta di far sparire i giornalisti, quelli onesti ovviamente, non
gli embedded che fanno finta di fare i giornalisti. Eliminandoli fisicamente.
Per questi motivi suscita molti e giustificati interrogativi
la morte del giornalista argentino Sebastián Moro, che viveva a La Paz dal febbraio
2018, svolgendo un’intensa attività informativa per la stampa e le radio locali
ed era anche inviato speciale del noto quotidiano argentino Pagina 12 e di
molti altri organi di informazione indipendenti, comunitari ed alternativi
latinoamericani.
Moro lavorava per media appartenenti alla Confederazione
Sindacale Unica dei Lavoratori Contadini della Bolivia, un’importante
organizzazione di massa molto attiva tra agricoltori ed indigeni. Il suo ruolo
nell’informazione relativa al colpo di Stato e agli attacchi fascisti che lo
hanno preceduto ha attirato su di lui l’attenzione di gruppi terroristici di
estrema destra. Non è casuale che la sua ultima nota a Pagina 12, inviata il 9
novembre, riguardava proprio gli sviluppi del colpo di Stato in una giornata
contrassegnata dagli ammutinamenti dei poliziotti favorevoli ai golpisti.
Quello stesso giorno Moro aveva assistito alla devastazione degli uffici dove
lavorava da parte delle bande fasciste che hanno costituito il detonatore del
colpo di Stato.
Dopo l’invio dell’ultima corrispondenza non si sono più
avute notizie di Sebastian, successivamente ritrovato, dopo l’intervento della
famiglia, in stato di incoscienza all’interno dell’appartamento dove viveva e
ricoverato d’urgenza in una clinica privata di La Paz. Nonostante le cure
ricevute in terapia intensiva le condizioni del giornalista si sono
progressivamente aggravate, fino al coma profondo e poi alla morte.
Occorre stabilire se le numerose lesioni interne ed esterne,
contusioni multiple e politraumi rinvenute sul suo corpo siano effettivamente
riconducibili all’incidente cardiocircolatorio, causa ufficiale della sua
morte. Potrebbe invece essersi trattato di una brutale aggressione,
accompagnata dalla sottrazione dei ferri del mestiere: un giubbotto con la
scritta “giornalista della CSUTCB”, il registratore e il quadernetto degli
appunti.
La vicenda va del resto collocata nel quadro della vera e
propria caccia cruenta a giornalisti, dirigenti sociali e funzionari pubblici
con relativi familiari, scatenata proprio in quei giorni dalle orde fasciste
che agivano e continuano ad agire in Bolivia su ispirazione
dell’amministrazione Trump e con l’aperto sostegno delle Forze armate e della
Polizia.
Proprio nelle ore in cui Moro viveva la conclusione della
sua operosa esistenza venivano incendiati e saccheggiati in modo sistematico
gli organi informativi schierati con il legittimo governo di Evo Morales.
Il direttore generale dei mezzi informativi della CSUTCB a
La Paz, José Aramayo, subiva, quello stesso giorno, un tentativo di linciaggio
da parte delle squadracce cui seguiva un arresto da parte della Polizia con
motivazioni pretestuose. La notte del sabato in questione vari mezzi pubblici
di informazione come Red Patria Nueva, Bolivia TV, Canal Abya Yala, ed altri,
venivano silenziati in modo violento da forze di Polizia e paramilitari. La
famiglia ha denunciato l’accaduto alla Commissione Interamericana dei diritti
umani che si è occupata, fra le altre cose, dell’attacco, tuttora in corso,
alla libertà d’informazione nel Paese.
Occorre far luce su ogni aspetto della morte di Sebastian
Moro, portandolo quanto prima all’attenzione delle giurisdizioni competenti.
Queste ultime, compresa la Corte penale internazionale, potrebbero ben presto
essere chiamate a investigare su molti dei crimini commessi dai golpisti.
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