domenica 2 gennaio 2011

VERSO IL VI CONGRESSO/COSTRUENDO IL SOCIALISMO DEL TERZO MILLENNIO..


L’anno che è appena cominciato segna il 50° anniversario della nostra Associazione nata nelle principali città italiane nei giorni in cui una forza mercenaria di 1.500 uomini finanziata, addestrata e armata dagli Stati Uniti tentò di invadere Cuba attraverso la Baia dei Porci per rovesciare la Rivoluzione. In sole 66 ore l’unità del popolo cubano respinse gli invasori, infliggendo agli Stati Uniti la prima sconfitta militare in America Latina.
ll nuovo anno vedrà qui da noi consolidarsi una logica liberista e autoritaria messa in campo da un manager filo-americano spalleggiato da sindacati venduti. La classe politica di sinistra è incapace di intravedere la deriva che si sta prospettando, pertanto ognuno di noi dovrebbe sentirsi chiamato in causa contro questo vile ricatto perpetrato ora sui Compagni delle Fiat, ma inesorabilmente orientato a investire l’intero mondo del Lavoro italiano. Se non ritroviamo subito unità e senso della lotta ci verranno rapidamente cancellati diritti faticosamente acquisiti.
Anche per Cuba il 2011 sarà un anno cruciale, è stato infatti convocato per Aprile il VI congresso del Partito Comunista Cubano che vedrà un inevitabile riassetto socio-economico e segnerà una svolta decisiva nella storia della Revolucion. A differenza che nei paesi capitalisti però a Cuba cambiare non significa tornare indietro e siamo certi che la “battaglia economica” che verrà intrapresa mirerà a preservare e sostenere un modello di società diversa.


Per approfondire l’argomento vi inviamo l’interessante articolo di Fabrizio Casari tratto da www.altrenotizie.org

ll VI Congresso del Partito Comunista di Cuba, convocato per il prossimo Aprile, non sarà un congresso di routine.
Segnerà, in qualche modo, una decisa svolta nella storia della Rivoluzione cubana, che ha scelto di non rimanere ferma davanti all’inevitabile riassetto socio-economico, per salvaguardare la continuità del processo politico. E, come sempre, diversamente da quanto afferma la vulgata generale circa una scarsa democrazia in voga sull’isola, l’appuntamento congressuale stà pervadendo in lungo e largo il Paese, non si tratta certo una discussione tra le elites. Prima si sono svolti seminari nazionali con dirigenti e specialisti dei temi economici, quindi seminari in tutti i municipi dell’isola per preparare i quadri che parteciperanno alle riunioni con le comunità popolari. Dal 1° Dicembre fino al 28 febbraio, la discussione stà attraversando tutta la popolazione per poi raccogliere, entro l’11 marzo, proposte, emendamenti e opinioni sulla base delle quali si procederà alla stipula del documento congressuale. La discussione congressuale entrerà nel merito dei provvedimenti in qualche modo già annunciati. L’attualizzazione del modello economico e le sue inevitabili ripercussioni su quello sociale, saranno affrontate con una discussione le cui linee saranno indicate dal documento programmatico.
Nell’annunciare il Congresso, il Presidente Raul Castro ha indicato nella “ battaglia economica” il centro nevralgico della discussione, perché da essa dipendono sostenibilità e preservazione del sistema sociale cubano.
I media internazionali stampati su carta dell’impero, specializzati nel non voler riconoscere l’isola e le sue ragioni, hanno scritto a profusione su improbabili mutazioni genetiche del socialismo cubano. Cuba, infatti, accusata fino a ieri di essere inguaribilmente socialista, da qualche giorno è accusata di non esserlo più abbastanza. Le annunciate, profonde modifiche dell’organizzazione del lavoro sull’isola, hanno avuto, come effetto secondario, quello di spiazzare gli autocelebrati “esperti” che, dai bar di Little Habana a Miami, scrivono di Cuba.
Almeno nelle critiche c’è un tratto di coerenza: rimproverata per non aver mai aderito alla moda imperante del modello unico, l’isola subisce ora le reprimende per voler continuare a perseguire un unico modello. I suoi detrattori – almeno quelli non ingaggiati armi e bagagli dalla mafia di Miami – la accusavano fino a ieri come minimo di insostenibilità del modello, prodotto inevitabile dell’inapplicabilità del sistema. In sostanza, le colonne dei giornali che fino a ieri spiegavano l’inutilità di un’economia sussidiata dall’estero e sussidiante verso l’interno, oggi grondano di nostalgia per i sussidi.
Tra le tante obiezioni dei critici a tempo indeterminato, una delle più frequenti si riferiva all’insopportabilità sistemica della piena occupazione e del livellamento salariale, considerati due tra gli elementi da imputare all’utopia. Seppure simbolici di una concezione egualitaria e socialista della società, proprio in ragione della loro insostenibilità essi sarebbero luogo privilegiato della crisi della struttura economica del paese e, con ciò, primi nemici proprio delle aspirazioni di partenza.
Ponendo ipocritamente Cuba in alternativa a Cina e Vietnam, la sovrapposizione del sistema socialista e del modello cubano era utilizzata strumentalmente per declamare ragione e conseguenza della crisi del progetto di società scelto dall’isola caraibica. Confondendo fino ad ora i due termini (modello e sistema) e ciò che essi significano, i critici di cui sopra dimostrano di capire poco del sistema, del modello e di Cuba stessa.
La riforma del mercato del lavoro cubano, pur ripetutamente annunciata da ormai qualche anno, è certamente un fatto nuovo; apre scenari difficili da prevedere in tutta la loro portata e rompe schemi consolidati, cari all’ortodossia di nemici e amici. Ma appare, in buona sostanza, come un tentativo necessario di far fronte ad una crisi economica che va aggredita. L’intenzione evidente è semplice: far funzionare quello che non funziona. Inefficienze e disorganizzazione pesano troppo su un’economia che già patisce un blocco economico di quasi cinquant’anni, inumano ed anacronistico, che ha provocato oltre 751 miliardi di dollari di danni diretti e molti di più indiretti.
L’impossibilità di realizzare affari con Cuba, se si vuole farlo anche con gli Stati Uniti, produce una contorsione ulteriore della già difficile partita dell’import-export tra l’isola e i fornitori di prodotti. Le importazioni di Cuba (che non gode di linee di credito a medio e lungo termine garantite dagli organismi finanziari internazionali) sono pagate subito e a caro prezzo, mentre le esportazioni dei suoi prodotti, sulla base dei prezzi internazionalmente imposti dal Wto, risentono sia del livellamento verso il basso del valore di scambio dei prodotti, che della diminuzione della produzione nazionale, risultato di un’organizzazione interna del mercato del lavoro ormai insufficiente e superata.
Questo è uno dei punti chiave del problema. Con i nuovi provvedimenti, i privati, organizzati in cooperative, potranno lavorare nell’edilizia, nella falegnameria, nei trasporti nei servizi in generale; insomma potranno fare tutto quello che già – illegalmente e affrontando il rischio di multe – fanno. Si trasformerà insomma in diritto ciò che è già presente in fatto, eliminando sostanzialmente il mercato nero dei prodotti e delle prestazioni, che pure tanto danno reca alla già fragile economia e che tanta diseguaglianza intrinseca produce proprio nella patria dell’egualitarismo.
E se con la riforma del sistema valutario (nel 1994, quando fu legalizzato il possesso dei dollari) si mise una pietra tombale sul mercato nero della valuta, ora si spera che la legalizzazione di attività lavorative esercitate da privati riduca al minimo lo svolgimento delle stesse attività in nero. L’obiettivo finale è che tutto questo contribuisca a rendere minore la distanza tra la domanda di beni e servizi della popolazione e la possibilità dello Stato di soddisfarla. Sprechi, inefficienze e abusi possono essere fortemente ridotti proprio da politiche economiche premianti e calibrate sulle necessità del consumo interno. In particolare il trasporto pubblico e la manutenzione degli edifici, due tra i maggiori problemi dei cubani, possono ricevere una soluzione da queste aperture. Se per esempio si estendesse anche alle auto di recente fabbricazione e ai microbus quello che è già permesso da alcuni anni per le auto d’epoca e cioè l’utilizzo della propria vettura come mezzo adibito al trasporto pubblico, potrebbe generare impiego e ridurre le file.
E’ chiaro che cambiare molto non sarà semplice né rapido. Milioni di cubani andranno formati ed ulteriori ampliamenti della presenza internazionale negli investimenti sull’isola saranno inevitabili. Il welfare stesso – fiore all’occhiello del socialismo cubano – dovrà essere parzialmente finanziato dall’aumento delle entrate tributarie derivante dal lavoro privato, giacché il proseguimento del livello (altissimo) di assistenza non può poggiare solo sulla fiscalità generale che, unica al mondo ha nelle entrate una dimensione ridicola rispetto alle uscite. Cuba ha bisogno di riassestare in profondità l’organizzazione del lavoro e deve farlo incamminandosi verso un’economia mista (pubblica e privata) che generi il gettito fiscale necessario anche per la copertura del welfare. Verranno quindi concesse licenze per lo svolgimento di attività private destinate ai servizi e ogni impresa che assumerà lavoratori dovrà pagare la quota stabilita di salario, assistenza e previdenza. I profitti verranno tassati per aumentare le entrate statali. A questo si aggiunge la necessità di riprogrammare il cosa e il quanto lo Stato deve produrre e, quindi, la forza lavoro che ha bisogno d’impiegare. Perché in nessun manuale di socialismo é scritto che il lavoro artigianale non possa essere privato. Che un barbiere sia un impiegato pubblico, invece che un artigiano privato, non assegna patenti di autenticità socialista o, viceversa, ne riduce. Affidare ai privati la produzione di servizi destinati al consumo interno appare invece come un utile passo verso una modernizzazione del paese in un contesto di rinnovamento senza abiure.
Sarà un cammino faticoso, doloroso, irto di ostacoli, suscettibile di sollecitazioni ora difficili da prevedere e anche di ulteriori cambi di passo in corsa. L’istruzione, la salute, la difesa e la grande produzione industriale rimarranno nelle mani dello Stato, ma andrà formata una cultura del lavoro che non preveda l’impiego “a prescindere” dalle mansioni effettivamente svolte e che le stesse siano indifferenti alla domanda di consumo interno. Per questo Cuba è oggi obbligata a ristabilire un principio: il valore del lavoro dev’essere riflesso in quello del salario.
Ed è proprio la chiara intenzione di modernizzare e adeguare, invece che demolire, l’aspetto che scatena il sarcasmo e il livore scribacchino dei columnist che non trovano pace con Cuba e nemmeno con se stessi. Avrebbero preferito che Cuba dichiarasse la fine del suo sistema, l’insostenibilità del suo modello, il venir meno della sua utopia; tra le tante, l’unica ad aver avuto applicazione concreta. Si aspettavano, insomma, una resa senza condizioni, l’abdicazione dei princìpi prima ancora che l’azzeramento di un sistema. Sono delusi, da ciò dipende l’acrimonia.
Cuba ha scelto di rinnovarsi invece che di restare sotto l’albero con le mani in mano. Ha scelto di cambiare quello che non funziona proprio per non essere costretta a cambiare tutto. Ha scelto, insomma, di accettare la sfida solitaria. Una sfida che prevede l’adeguamento del suo modello economico alle necessità interne e alla congiuntura internazionale e che offre un’apertura di credito verso la capacità di rendere il modello più efficiente, è segno di profonda fiducia nello stesso.
Il socialismo cubano, che potrebbe essere definito un combinato disposto di giustizia sociale e indipendenza nazionale, ha bisogno di essere in linea con questi due elementi proprio per rilanciare il suo modello; perché il miglioramento dell’economia è un passaggio inevitabile per il mantenimento del modello e perché, salvare il sistema, passa proprio dal riuscire a riformare il modello.
Riformare, sburocratizzare, modernizzare: niente di tutto ciò significa tornare indietro. Al contrario, modernizzare e sbloccare, innovare e riformare, sono propedeutici al perdurare. Per tutto quello che ha significato e significa Cuba, per tutto quello che significa la presenza di un modello di società diversa, vale quindi la pena provarci. Cambiare non significa tornare indietro. L’isola socialista si vestirà elegante per questo appuntamento con la terza fase della sua storia, mentre a Miami continueranno a sognare un’impossibile restaurazione. Ma moriranno di rancore e di nostalgia guardando la baia dell’Avana nelle notti prive di foschia.E questo è il resto.

Nessun commento: