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mercoledì 24 dicembre 2014
domenica 21 dicembre 2014
Cuba, Obama cambia verso
di Fabrizio Casari
La notizia che tutte le persone dotate di buon senso
attendevano da decadi è arrivata. Gli Stati Uniti rivedono in forma e sostanza
la loro politica verso l’isola socialista. Sebbene non sarà facile
l'abrogazione del blocco, che potrà darsi solo con il voto del Congresso a
maggioranza repubblicana, i poteri presidenziali permetteranno
all'Amministrazione Obama di procedere verso la normalizzazione delle relazioni
diplomatiche con Cuba.
Da subito, insieme ad una serie di misure destinate a
svuotare il blocco, come primo significativo atto della nuova fase, Obama ha
accolto la proposta di Cuba di uno scambio tra Alan Gross, detenuto a L’Avana e
i tre cubani prigionieri negli Stati Uniti. Un gesto auspicato da diverso tempo
da Cuba e che rappresenta ora un importante inizio di questa nuova fase delle
relazioni tra i due paesi.
Fidel l’aveva promesso al suo popolo e così è stato.
Volveran (torneranno) era stata la parola che in questi anni aveva accompagnato
ogni presa di posizione in ogni parte del mondo che chiedeva il ritorno a Cuba
dei suoi eroi antiterroristi imprigionati negli Stati Uniti, giudicati da
processi farsa e condannati sulla base dell’odio politico degli USA verso
l’isola caraibica. E ora sono liberi e a casa, premio finale di una politica
che il governo cubano ha saputo costruire miscelando dialogo e fermezza,
decisionismo politico e aperture costanti.
Un atteggiamento che ha reso chiaro all’interlocutore
statunitense come il confronto era tra pari e che la soluzione del conflitto su
tema degli attacchi terroristici contro Cuba e il diritto di essa a difendersi
non avrebbe trovato altro terreno possibile che non vedesse le parti trattare
sulla base dell’eguaglianza, come si deve a due paesi che reciprocamente
riconoscono il loro diritto alla sicurezza.
A simbolizzare l'accordo, persino nelle comunicazioni ai
rispettivi popoli c’è stata uguaglianza, visto il contemporaneo intervento del
presidente Usa e di quello cubano a commentare il nuovo cammino intrapreso.
Dopo aver entrambi ringraziato Papa Francesco e il governo del Canada per
l’opera di mediazione svolta, il Presidente Obama si è detto convinto che “non
si possa procedere per sempre con politiche identiche sperando che diano
risultati differenti”, riconoscendo quanto meno l'inutilità delle misure
adottate fino ad oggi. Affermando in spagnolo “tutti siamo americani”
(disarticolando così la Dottrina Monroe), e dicendosi convinto che “dobbiamo
imparare l’arte di convivere civilmente con le nostre differenze”, il
presidente USA ha chiamato il Congresso “a rimuovere ostacoli ed impedimenti
che restringano i vincoli tra i nostri popoli” chiedendo così di approvare
rapidamente la fine del blocco contro Cuba.
Concetti simili quelli esposti dal Presidente cubano Raul
Castro, che in un discorso alla nazione ha affermato che “L’Avana è pronta a
stabilire livelli di cooperazione negli ambiti multilaterali come le Nazioni
Unite” e, pur ricordando come i due paesi abbiano “visioni differenti sul tema
dei diritti umani e politica estera, da parte di Cuba c’è la volontà di
dialogare con gli Usa su questi temi”.
Immediati i complimenti per il cambio di politica da parte
di Washington da parte di Papa Francesco e del Segretario delle Nazioni Unite
Bank Ki Moon, così come da diversi leader latinoamericani, primo dei quali il
Presidente del Venezuela, Nicolas Maduro, che ha affermato si debba riconoscere
al Presidente Obama “un gesto valoroso”.
La liberazione di Alan Gross, il contrattista dell’USAID
arrivato a Cuba per contribuire alla costruzione di una rete clandestina
sovversiva, nell’ambito del progetto governativo statunitense di “attività per
lo sviluppo della democrazia a Cuba”, (cioè l’interferenza a scopo di
destabilizzazione del clima politico nell’isola), è stata da alcuni anni la
richiesta di Washington a L’Avana come viatico per l’apertura di un processo
che portasse gradualmente alla “normalizzazione delle relazioni”.
Da parte sua, Cuba - che nell’ambito dell’accordo ha deciso
di liberare altri 53 detenuti per sovversione ed una spia statunitense di
origine cubana - aveva sempre proposto lo scambio del detenuto statunitense con
i tre eroi cubani prigionieri con un duplice obiettivo: il primo, ovviamente,
era quello di riportare a casa uomini che a buon diritto e senza nessuna
retorica è possibile chiamare eroi.
Seppelliti sotto pene detentive pazzesche, in nessun momento
hanno accettato di sottomettersi alle esigenze politiche statunitensi fornendo
versioni che avrebbero potuto risparmiargli la detenzione. Hanno continuato a
subire ogni privazione ed ogni affronto ma gridando al mondo la verità della
loro missione: infiltrarsi nella rete terroristico-mafiosa della FNCA e
smascherare i loro piani terroristici contro l’isola.
La liberazione di due di essi era già arrivata nei mesi
scorsi per lo scadere delle loro condanne, mentre tre rimanevano ancora
prigionieri. Contro l’assurdità delle condanne e per la loro liberazione, in
ogni dove del mondo si sono pronunciati parlamenti e singole personalità
politiche, intellettuali, artisti, uomini e donne di ogni categoria e
professione, giuristi ed organi di stampa. Ed è evidente come questa campagna
internazionale abbia ottenuto l’effetto di rendere ogni giorno più difficile
mantenerli prigionieri e, dunque, ogni giorno più possibile avviare un dialogo
che prevedesse la loro liberazione.
Il secondo obbiettivo cubano era invece tutto politico:
mettere sulla bilancia la liberazione di Alan Gross e quella dei tre
prigionieri cubani significava chiarire al mondo che chi da Miami combatteva le
infiltrazioni terroristiche contro Cuba aveva ben ragione di farlo, dato che
dette operazioni venivano realizzate anche dalle agenzie statali USA,
nell’ambito del progetto di sovvertire l’ordine sociopolitico cubano.
Mettere sullo stesso piano Gross e i tre cubani significava
costringere gli Stati Uniti ad ammettere che Gross era a Cuba per conto del
governo USA, così come Renè Gonzalez, Gerardo Hernandez, Fernando Gonzalez,
Antonio Guerrero e Ramon Labanino erano negli Usa per conto di Cuba. Tutti
avevano una missione da compiere
Assai diverse tra loro, però. I cinque lavoravano per
fermare gli attentati che in 55 anni sono costati all’isola centinaia di morti
e feriti e miliardi di dollari di danni, mentre Gross era a Cuba come soggetto
attivo nelle più recenti operazioni di destabilizzazione contro l’isola,
realizzate tramite la manipolazione della Rete internet, il sostegno ai cosiddetti
“dissidenti”, le attività spionistiche realizzate dalle ONG fintamente
indipendenti. Operazioni che si sommavano al blocco economico e commerciale,
all’aggressione diplomatica e alla propaganda anticubana, formando i tanti -
non tutti - tasselli del puzzle che disegna l’ostilità degli USA verso Cuba.
Da parte cubana si registra una inevitabile soddisfazione
per l’esito auspicato in questi anni. Non si tratta, peraltro, solo del
riconoscimento implicito da parte degli USA del diritto di Cuba a difendersi ed
ottenere comunque un risultato politico indiscutibile nel tenere allo stesso
tavolo, con pari dignità, Davide e Golia, ma anche di vedere ora, in una
prospettiva politica di breve termine, la fine di una ostilità ed un odio
anacronistico che può aprire per entrambi i paesi un cammino diverso.
Per Cuba la normalizzazione delle relazioni con gli Stati
Uniti rappresenta di per sé un ulteriore conferma di come 55 anni di resistenza
non sono stati vani; le aperture già determinatesi con l’evoluzione del
socialismo cubano troveranno ulteriore rafforzamento da questo passaggio. Il
cui significato sarà, fino a quando non si accompagnerà alla fine formale del
blocco economico, soprattutto politico, ma il cui valore simbolico rappresenta
la fine di un’era e l’inizio di un nuovo corso della storia.
Per gli Stati Uniti, il riconoscimento dell’interlocuzione
politica con Cuba, sollecitato dai suoi mass media più prestigiosi, apre uno
scenario interno inedito, giacché riporta per la prima volta in 50 anni la titolarità
della politica verso Cuba nelle mani della Casa Bianca. I repubblicani daranno
battaglia affinchè il Congresso non approvi la fine del blocco contro Cuba, e
d'altra parte ciò dal punto di vista dei loro interessi è comprensibile. Non
solo uno dei capisaldi della loro politica viene messo in crisi, e per di più
con Congresso e Senato nelle loro mani, ma la Casa Bianca pone il partito
repubblicano in totale isolamento nei confronti dell'opinione pubblica interna
ed internazionale.
Inoltre, l'iniziativa di Obama riduce enormemente, in un
colpo solo, l’influenza della lobby affaristico-mafiosa diretta dalla FNCA in
Florida e mette i parlamentari eletti grazie ai suoi voti in una posizione
secondaria. Assesta un ulteriore colpo all’area più reazionaria e recalcitrante
del partito repubblicano e pone la Florida, uno degli stati-chiave per
l’elezione del Presidente, di fronte ad uno scenario che vedrà ripercussioni
enormi sul piano dell’equilibrio dei poteri locali quando le leggi anticubane e
l’intero blocco dovessero cessare di esistere.
Basti pensare a cosa sarebbe dei colossali affari che la
FNCA realizza con l’immigrazione clandestina il giorno che la Ley del pie
mojado (“legge del piede bagnato”, con la quale si stabilisce che ogni cubano
che arrivi a toccare il territorio americano sia immediatamente residente,
mentre di ogni altra nazionalità viene arrestato). Sul traffico di clandestini
tra Cuba e Usa la FNCA ha costruito una parte consistente delle sue fortune,
con le quali ha continuato a finanziare la sua corte di terroristi anticubani.
Non è un caso che il Senatore Marco Rubio, che rappresenta
il volto nuovo della lobby parlamentare anticubana diretta dalla FNCA di Miami,
abbia dichiarato immediatamente che “lo scambio rappresenta un precedente
pericoloso che mette a rischio gli statunitensi nel mondo”, che la visione di
Obama è “ingenua e ignorante e tradisce i valori statunitensi” e la sua
ventriloqua, Yoani Sanchez, abbia commentato che “il castrismo ha vinto”. Per
lei, come per i suoi compari nell’isola, il vento sarà indubbiamente diverso:
la normalizzazione delle relazioni non potrà non determinare la fine degli
stanziamenti verso la sovversione, o comunque una sua significativa riduzione.
Per l’analfabeta politica che gli Usa avevano scelto come
bandiera della democrazia, si apre una fase diversa, dove i milioni di dollari
accumulati avranno bisogno di oculatezza negli investimenti, visto il futuro
che si prospetta meno generoso. Nel momento in cui Washington dovesse ritenere
superflua la sua esistenza, non basterebbero certo gli Aznar o i Vaclav Havel a
garantirle le ricchezze ricevute in cambio delle sue menzogne strampalate
diffuse in tutto il mondo con l’aurea di verità indiscutibili.
Sotto il profilo della politica interna USA, poi, c’è da
sottolineare come il processo di normalizzazione delle relazioni con Cuba sia
sempre stato un proposito di Hillary Clinton e che lo stesso Obama, all’inizio
del suo mandato, sei anni orsono, aveva ritenuto dover mettere in agenda.
Il compito di rivedere la presenza di Cuba nella lista dei
paesi che patrocinano il terrorismo spetterà a John Kerry, che in passato - va
ricordato - fu uno dei senatori che denunciarono il loro scetticismo sui
finanziamenti statunitensi alla “dissidenza”, arrivando a dubitare fortemente
non solo dell’efficacia ma soprattutto della gestione poco trasparente di quei
finanziamenti.
Obama ha quindi deciso di assecondare le pressioni che
imprese, media e cittadini statunitensi hanno diffuso da ormai molti anni,
liberando la Casa Bianca dalla morsa ricattatoria della comunità cubano
americana, che dalla Baia dei Porci ad oggi ha rappresentato il più emblematico
caso di esercizio lobbistico dannoso per il paese e, cosa altrettanto
importante, sul piano dell’immagine sceglie di chiudere uno dei buchi neri
storici della politica estera USA.
Evidentemente liberatosi dalla cautela, vista la fase finale
del suo ultimo mandato, Barak Obama ha deciso di dare un segnale forte alla sua
amministrazione, di passare in qualche modo alla storia come il presidente che
mise fine ad una posizione politica ridicola e condannata dal mondo intero,
abbattendo così l'ultimo pezzo d'intonaco del muro ereditato dalla guerra
fredda. E, così facendo, guadagnandosi almeno una parte di quel Nobel per la
pace prematuramente offertogli all’inizio del suo primo mandato.
dal sito altrenotizie.orgLeggi tutto...
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Cuba,
I cinque eroi
giovedì 18 dicembre 2014
Finalmente liberi!
Prigionieri dal 12 settembre 1998 dopo oltre sedici anni di
ingiusta detenzione negli Stati Uniti sono stati finalmente liberati Gerardo
Hernandez, Ramon Labañino ed Antonio Guerrero, i tre dei cinque combattenti
antiterroristi cubani ancora in carcere (René Gonzalez e Fernando Gonzalez
erano stati già liberati nel corso dell’ultimo anno).
Accogliamo con gioia
questa bella notizia.
Hanno resistito a torture e pressioni psicologiche e
preferito rimanere da innocenti in prigione piuttosto che tradire il proprio
paese e il socialismo.
Hasta la victoria siempre!
Il direttivo del
Circolo Italia-Cuba di Senigallia.
Di seguito il comunicato della nostra segreteria nazionale.
Milano, 17 dicembre 2014
Dopo sedici anni di incessanti battaglie di Cuba e tutto il
suo popolo, a cui si è unito un enorme movimento di solidarietà a livello
mondiale del quale orgogliosamente la nostra Associazione fa parte, è arrivata
la notizia che tutti abbiamo tanto atteso: sono ritornati finalmente in libertà
gli ultimi tre prigionieri dei Cinque eroi cubani ingiustamente detenuti nelle
carceri degli Stati Uniti!
La soluzione politica di questa lunga vicenda dimostra
quello che tutti abbiamo sostenuto: i Cinque eroi sono stati prigionieri
politici e non criminali come la destra e la mafia cubano-americana hanno
sempre voluto far credere.
Esprimiamo tutta la nostra felicità per questo epilogo e la
nostra solidarietà con i Cinque Eroi e tutto il popolo cubano.
Segreteria Nazionale
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I cinque eroi
martedì 9 dicembre 2014
Cena di solidarietà.
Sabato 13 dicembre
ore 20:30
al Circolo Uisp Cesanella di Senigallia
Bocciodromo di via Mantegna, 2 (dietro
la SACCARIA)
CENA con il seguente menù:
·
Tris di bruschette
·
Spezzatino con
fagioli (o con patate)
·
Pinzimonio
·
Dolce
·
Vino Lacrima, acqua,
e naturalmente Ron Cubano!
BALLO con il gruppo di Pizzica Salentina
“MUSICA DELL’ANIMA”
Il costo
della serata ad offerta a partire da € 15
(bambini €10)
L’intero ricavato sarà destinato all’acquisto di un
farmaco antitumorale pediatrico da inviare a Cuba
info su http://www.italia-cuba.it/cuba/salute/medicuba/medicuba.htm
per evitare sprechi è necessario poter
calcolare bene le quantità, chi volesse partecipare è quindi pregato di
prenotarsi
entro giovedì 11
dicembre
telefonando ai seguenti numeri:
Albinella
333/3806715 - Peppe 340/9652373 -
Rosalba 335/423701 - Maurizio 333/3745938
Rosalba 335/423701 - Maurizio 333/3745938
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iniziative circolo
lunedì 20 ottobre 2014
Ebola, Cuba risponde all’allarme Onu.
Cuba. La piccola isola si mobilita contro
l’Ebola. Al via il vertice speciale dei
paesi dell’Alba
Roberto Livi - il manifesto del 19/10/14.
Più di 4.000 morti in Africa occidentale ma secondo gli esperti la cifra dovrebbe
essere raddoppiata. Di fronte a questo tragico bilancio di vittime dell’Ebola
l’Onu ha suonato l’allarme internazionale, chiedendo alle grandi potenze e alle
ex colonie una mobilitazione straordinaria per contrastare il morbo. Però i
grandi attori internazionali sono restii a far seguire i fatti agli allarmi.
E ancor di più a inviare personale medico in Africa. Così il
compito di guidare la forza medica internazionale nel fronte di combattimento
dell’Ebola, tocca a una piccola isola, con poco più di 11 milioni di abitanti e
un reddito procapite di circa 5000 euro: infatti Cuba ha inviato la settimana
scorsa in Sierra Leone un contingente di 165 fra medici, infermieri, biologi e
specialisti in assistenza sociale. E entro l’anno giungerà un secondo
contingente formato da 294 operatori della salute.
Non solo, da domani inizierà all’Avana un vertice speciale
dell’Alleanza bolivariana dei popoli della nostra America-Trattato di commercio
dei popoli (Alba-Tcp) per coordinare la cooperazione regionale per affrontare
l’epidemia dell’Ebola e porre in atto misure preventive. Capi di Stato e di
governo dell’Alba (Cuba, Venezuela, Ecuador, Bolivia, Antigua y Barbuda,
Salvador, Nicaragua, Santa Lucia, San Vicente e Granadine, Surinam, San
Domingo) rispondono così all’appello dell’Onu per decidere una politica comune
di aiuti all’Africa occidentale e centrale e per evitare che il contagio si
estenda all’America latina e ai paesi dei Caraibi.
Non è la prima volta che Cuba gioca un ruolo di primaria
importanza nell’affrontare disastri internazionali: il suo contributo ai
contingenti medici e sanitari impegnati in situazioni di crisi (epidemie,
terremoti, ecc) non ha rivali: fino ad oggi circa 50.000 operatori sanitari
cubani ben addestrati sono al lavoro in 66 Paesi. Non solo, l’isola ha
sperimentato anche personale capace di intervenire in situazioni di crisi, come
i cicloni, per organizzare la mobilitazione sociale e dare assistenza anche
psicologica alla popolazione. Proprio grazie a questa esperienza e a tale
massiccio impegno, il vertice straordinario dell’Alba è stato convocato
all’Avana.
Con una dichiarazione del tutto inusuale, anche il
segretario di Stato Usa, John Kerry ha riconosciuto il ruolo di avanguardia di
Cuba rivolgendosi al corpo diplomatico straniero a Washington per chiedere una
mobilitazione internazionale contro l’epidemia: «Cuba – ha detto – un paese di
appena 11 milioni di abitanti ha inviato (in Africa) 165 operatori della salute
e prevede di inviarne altri 300». La necessità di intervenire in Africa per
fermare il contagio è stata più volte espressa dalle autorità cubane. Lo stesso
Fidel Castro, in un articolo pubblicato ieri, ha espresso il suo commosso
omaggio agli specialisti cubani impegnati in questa importante, ma anche pericolosa,
missione umanitaria. «È giunta l’ora del dovere» e dell’impegno, conclude
Fidel, ricordando che con questo vertice straordinario «noi latinoamericani e
caribegni inviamo un messaggio di speranza e di lotta agli altri paesi del
mondo».
Nonostante i riconoscimenti internazionali di fronte a tale
impegno, vi è però chi non rinuncia a usare politicamente questa emergenza per
attaccare il governo cubano. Il ruolo, ancora una volta, è toccato al Nuovo
Herald che nei giorni scorsi ha pubblicato un articolo dedicato a «voci
insistenti» le quali affermano che in caso di contagio «gli operatori sanitari
cubani non saranno rimpatriati nell’isola». Come dire che saranno abbandonati
alla loro sorte. Naturalmente, nessuna prova è stata fornita per sostenere tali
«voci», che sanno di sciacallaggio.
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Cuba
giovedì 16 ottobre 2014
Bolivia, il trionfo di Evo Morales.
Dal sito Altrenotizie - di Fabrizio
Casari
Il messaggio delle urne boliviane è chiarissimo: il primo presidente indio della Bolivia sarà anche il prossimo. Con oltre il 60% dei voti, infatti, affermandosi in otto dei nove dipartimenti in cui è suddiviso il Paese, Evo Morales ha stravinto le elezioni di domenica scorsa in Bolivia e sarà ancora Presidente per altri 4 anni. L’ex leader del MAS (Movimiento al Socialismo), figura nobilissima della sinistra latinoamericana, ha conquistato per la terza volta la presidenza del suo paese, surclassando l’opposizione di destra sponsorizzata da Washington.
Il risultato era atteso. Non tanto per la debolezza della destra, quanto per i risultati di otto anni di presidenza della sinistra. Evo ha raccolto i frutti di quanto seminato in un paese che, nonostante la contrazione economica dell’area, risulta in pieno ciclo espansivo da diversi anni.
Ciò grazie agli otto anni della sua presidenza, caratterizzatasi per le politiche socialiste nella riorganizzazione dell’economia, fatte anche di nazionalizzazione degli impianti e di restituzione agli interessi nazionali degli accordi con le compagnie straniere. Con una economia in crescita del 6%, la Bolivia non poteva che assegnare con il voto il riconoscimento alla qualità dell’impianto socio-economico del modello.
I risultati della sua politica economica si sono visti: il ricavato dei suoi giacimenti di gas, delle sue piantagioni di soia e della raccolta della pasta di coca destinata al mercato legale, hanno prodotto un pareggio di bilancio mai registrato nella storia del paese andino. Un tempo destinate a prendere il volo verso gli USA, le risorse ottenute dall’industria dello sfruttamento degli idrocarburi sono state la fonte di finanziamento delle opere sociali che hanno enormemente ridotto la distanza tra i diversi settori sociali della società boliviana.
Aiuti diretti e indiretti agli anziani, alle donne in gravidanza e a tutti i bambini, ampliamento dei servizi e riconoscimento del dovere d'intervento dello Stato nelle problematiche più acute sono state il modus operandi del governare di Evo Morales.
Il successo economico del socialismo boliviano è stato possibile anche grazie ad un generale smantellamento del sistema costituzionale precedente, cucito su misura per gli interessi del latifondo locale le multinazionali estrattive statunitensi e che aveva regalato alla Bolivia 190 anni di storia coloniale.
In questo senso tra i successi maggiori e migliori ottenuti da Evo nei precedenti mandati c’è certamente quello della nuova Carta costituzionale, da lui fortemente voluta ed approvata nel Gennaio del 2009, che - come dichiarò alla sua approvazione -“rappresenta la fine del latifondismo e dell’epoca coloniale, interna ed esterna”.
E non è certo indifferente, per la riorganizzazione del tessuto produttivo del Paese, ciò che la Carta impone con l’articolo 398: il limite invalicabile di cinquemila ettari per l’estensione massima delle proprietà terriere e stabilisce altresì che sarà necessario, in futuro, ottenere l’approvazione delle comunità indigene prima di poter sfruttare le risorse naturali nel loro territorio.
La nuova Costituzione disegna la costruzione di uno Stato “unitario, sociale e di diritto plurinazionale, libero e indipendente, che offre ascolto a tutti i movimenti sociali sulle scelte riguardanti l’educazione, la salute e la casa”. Il testo costituzionale riconosce tre tipi di democrazia: rappresentativa, diretta e comunitaria e allo stesso tempo stabilisce una conseguente articolazione tra la giustizia ordinaria e la quella comunitaria.
E proprio sotto il profilo dell’articolazione dello Stato (elemento non certo secondario nella riforma di un Paese) l’innovazione è stata straordinaria e di assoluto valore storico: la nuova Carta, infatti, prende atto della struttura plurinazionale del paese che viene rappresentata direttamente ed indirettamente in tutti i suoi 411 articoli, che riconoscono sullo stesso piano le autonomie regionali, provinciali, territoriali indigene e municipali che già esistono.
Insomma, la Carta elaborata dall’Assemblea Costituente è stata un’opera di alta ingegneria politica e una vera e propria rivoluzione culturale, che ha aumentato notevolmente il controllo statale sull’economia e l’influenza delle 36 nazioni indigene nella rappresentanza politica. In questi ed altri passaggi si evidenzia il senso politico che ha caratterizzato i suoi mandati presidenziali di Evo Morales: la costruzione del retroterra politico ed istituzionale di un paese plurale sancito costituzionalmente.
Ieri, parlando dal balcone del Palacio Quemado, la sede del governo a La Paz, Evo ha dedicato la sua vittoria a “tutti i popoli del mondo in lotta contro l’imperialismo” e, in particolare, a Fidel Castro e Hugo Chavez, suoi punti di riferimento umani, oltre che politici.
Fidel Castro, che 54 anni orsono ruppe la catena di comando statunitense sul continente, trasformando Cuba nel primo territorio libero delle Americhe ed edificando un sistema che per equità e sovranità nazionale, é esempio vivente per tutta la sinistra del continente e non solo, di Evo è stato in qualche modo “padre putativo”, consigliere e riferimento costante nel suo agire politico.
Hugo Chavez, che seguendo il cammino tracciato da Simon Bolivar restituì il Venezuela ai venezuelani e che diede vita al “Socialismo del terzo millennio”, è stato l’alleato più immediato e leale per il giovane presidente boliviano, che pure nel suo incedere vittorioso ha dovuto affrontare (come Chavez) un tentativo di colpo di stato e serrate da parte dei suoi avversari che cercavano d’isolare la Bolivia e riportarla nelle solite mani a stelle e strisce.
D’altra parte la lunghissima marcia dall’opposizione al governo non faceva presagire un mandato tenue, incerto sul da farsi o a tinte fosche. L’integrità morale e la fede politica di Evo non erano adatte a un governo qualunque. E così non è stato.
Evo non ha adeguato i suoi ideali al mercato ma ha ricondotto il mercato alle esigenze del suo paese; non ha mai smesso i panni di leader della sinistra latinoamericana né ha avuto esitazioni nello scontrarsi con gli interessi e l’arroganza degli Stati Uniti. Dalla Cuba di Castro al Venezuela di Maduro, dal Nicaragua di Ortega all’Ecuador di Correa, dall’Argentina di Cristina Kirchner al Brasile di Djilma, Morales ha continuato a tessere la tela ormai robusta dell’unità latinoamericana.
Una consapevolezza continentale che ha nella sua unità la leva principale delle sue politiche commerciali e che ha seppellito da un decennio ormai, il Washington consensus, cioè quel sistema di dipendenza dagli Stati Uniti che, con rare e circoscritte eccezioni, caratterizzava le scelte e i destini dell’America Latina fino alla fine degli anni ’90.
La vittoria di Evo Morales è la vittoria di chi non svende per una poltrona i suoi ideali. Di chi non s’inginocchia, abbagliato dalla fama e dalle ricchezze e obnubilato dall’ambizione personale, di fronte al volere delle multinazionali ed al pensiero unico che ne costituisce l’humus ideologico.
Dimostra che si può pensare e realizzare una diversa politica economica e trarre i frutti per una diversa politica sociale. Che il mercato è un animale onnivoro che va controllato e regolamentato e che la ricchezza è solo arrogante privilegio se non viene distribuita equamente.
E dimostra anche che la sovranità nazionale, motore indiscutibile delle politiche economiche e sociali, si nutre dell’identità nazionale e del senso dell’indipendenza. La ricetta della vittoria della sinistra latinoamericana è soprattutto questa. Indipendenza, sovranità, integrazione, solidarietà: una manna indigesta per lo stomaco dello Zio Sam.
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Il messaggio delle urne boliviane è chiarissimo: il primo presidente indio della Bolivia sarà anche il prossimo. Con oltre il 60% dei voti, infatti, affermandosi in otto dei nove dipartimenti in cui è suddiviso il Paese, Evo Morales ha stravinto le elezioni di domenica scorsa in Bolivia e sarà ancora Presidente per altri 4 anni. L’ex leader del MAS (Movimiento al Socialismo), figura nobilissima della sinistra latinoamericana, ha conquistato per la terza volta la presidenza del suo paese, surclassando l’opposizione di destra sponsorizzata da Washington.
Il risultato era atteso. Non tanto per la debolezza della destra, quanto per i risultati di otto anni di presidenza della sinistra. Evo ha raccolto i frutti di quanto seminato in un paese che, nonostante la contrazione economica dell’area, risulta in pieno ciclo espansivo da diversi anni.
Ciò grazie agli otto anni della sua presidenza, caratterizzatasi per le politiche socialiste nella riorganizzazione dell’economia, fatte anche di nazionalizzazione degli impianti e di restituzione agli interessi nazionali degli accordi con le compagnie straniere. Con una economia in crescita del 6%, la Bolivia non poteva che assegnare con il voto il riconoscimento alla qualità dell’impianto socio-economico del modello.
I risultati della sua politica economica si sono visti: il ricavato dei suoi giacimenti di gas, delle sue piantagioni di soia e della raccolta della pasta di coca destinata al mercato legale, hanno prodotto un pareggio di bilancio mai registrato nella storia del paese andino. Un tempo destinate a prendere il volo verso gli USA, le risorse ottenute dall’industria dello sfruttamento degli idrocarburi sono state la fonte di finanziamento delle opere sociali che hanno enormemente ridotto la distanza tra i diversi settori sociali della società boliviana.
Aiuti diretti e indiretti agli anziani, alle donne in gravidanza e a tutti i bambini, ampliamento dei servizi e riconoscimento del dovere d'intervento dello Stato nelle problematiche più acute sono state il modus operandi del governare di Evo Morales.
Il successo economico del socialismo boliviano è stato possibile anche grazie ad un generale smantellamento del sistema costituzionale precedente, cucito su misura per gli interessi del latifondo locale le multinazionali estrattive statunitensi e che aveva regalato alla Bolivia 190 anni di storia coloniale.
In questo senso tra i successi maggiori e migliori ottenuti da Evo nei precedenti mandati c’è certamente quello della nuova Carta costituzionale, da lui fortemente voluta ed approvata nel Gennaio del 2009, che - come dichiarò alla sua approvazione -“rappresenta la fine del latifondismo e dell’epoca coloniale, interna ed esterna”.
E non è certo indifferente, per la riorganizzazione del tessuto produttivo del Paese, ciò che la Carta impone con l’articolo 398: il limite invalicabile di cinquemila ettari per l’estensione massima delle proprietà terriere e stabilisce altresì che sarà necessario, in futuro, ottenere l’approvazione delle comunità indigene prima di poter sfruttare le risorse naturali nel loro territorio.
La nuova Costituzione disegna la costruzione di uno Stato “unitario, sociale e di diritto plurinazionale, libero e indipendente, che offre ascolto a tutti i movimenti sociali sulle scelte riguardanti l’educazione, la salute e la casa”. Il testo costituzionale riconosce tre tipi di democrazia: rappresentativa, diretta e comunitaria e allo stesso tempo stabilisce una conseguente articolazione tra la giustizia ordinaria e la quella comunitaria.
E proprio sotto il profilo dell’articolazione dello Stato (elemento non certo secondario nella riforma di un Paese) l’innovazione è stata straordinaria e di assoluto valore storico: la nuova Carta, infatti, prende atto della struttura plurinazionale del paese che viene rappresentata direttamente ed indirettamente in tutti i suoi 411 articoli, che riconoscono sullo stesso piano le autonomie regionali, provinciali, territoriali indigene e municipali che già esistono.
Insomma, la Carta elaborata dall’Assemblea Costituente è stata un’opera di alta ingegneria politica e una vera e propria rivoluzione culturale, che ha aumentato notevolmente il controllo statale sull’economia e l’influenza delle 36 nazioni indigene nella rappresentanza politica. In questi ed altri passaggi si evidenzia il senso politico che ha caratterizzato i suoi mandati presidenziali di Evo Morales: la costruzione del retroterra politico ed istituzionale di un paese plurale sancito costituzionalmente.
Ieri, parlando dal balcone del Palacio Quemado, la sede del governo a La Paz, Evo ha dedicato la sua vittoria a “tutti i popoli del mondo in lotta contro l’imperialismo” e, in particolare, a Fidel Castro e Hugo Chavez, suoi punti di riferimento umani, oltre che politici.
Fidel Castro, che 54 anni orsono ruppe la catena di comando statunitense sul continente, trasformando Cuba nel primo territorio libero delle Americhe ed edificando un sistema che per equità e sovranità nazionale, é esempio vivente per tutta la sinistra del continente e non solo, di Evo è stato in qualche modo “padre putativo”, consigliere e riferimento costante nel suo agire politico.
Hugo Chavez, che seguendo il cammino tracciato da Simon Bolivar restituì il Venezuela ai venezuelani e che diede vita al “Socialismo del terzo millennio”, è stato l’alleato più immediato e leale per il giovane presidente boliviano, che pure nel suo incedere vittorioso ha dovuto affrontare (come Chavez) un tentativo di colpo di stato e serrate da parte dei suoi avversari che cercavano d’isolare la Bolivia e riportarla nelle solite mani a stelle e strisce.
D’altra parte la lunghissima marcia dall’opposizione al governo non faceva presagire un mandato tenue, incerto sul da farsi o a tinte fosche. L’integrità morale e la fede politica di Evo non erano adatte a un governo qualunque. E così non è stato.
Evo non ha adeguato i suoi ideali al mercato ma ha ricondotto il mercato alle esigenze del suo paese; non ha mai smesso i panni di leader della sinistra latinoamericana né ha avuto esitazioni nello scontrarsi con gli interessi e l’arroganza degli Stati Uniti. Dalla Cuba di Castro al Venezuela di Maduro, dal Nicaragua di Ortega all’Ecuador di Correa, dall’Argentina di Cristina Kirchner al Brasile di Djilma, Morales ha continuato a tessere la tela ormai robusta dell’unità latinoamericana.
Una consapevolezza continentale che ha nella sua unità la leva principale delle sue politiche commerciali e che ha seppellito da un decennio ormai, il Washington consensus, cioè quel sistema di dipendenza dagli Stati Uniti che, con rare e circoscritte eccezioni, caratterizzava le scelte e i destini dell’America Latina fino alla fine degli anni ’90.
La vittoria di Evo Morales è la vittoria di chi non svende per una poltrona i suoi ideali. Di chi non s’inginocchia, abbagliato dalla fama e dalle ricchezze e obnubilato dall’ambizione personale, di fronte al volere delle multinazionali ed al pensiero unico che ne costituisce l’humus ideologico.
Dimostra che si può pensare e realizzare una diversa politica economica e trarre i frutti per una diversa politica sociale. Che il mercato è un animale onnivoro che va controllato e regolamentato e che la ricchezza è solo arrogante privilegio se non viene distribuita equamente.
E dimostra anche che la sovranità nazionale, motore indiscutibile delle politiche economiche e sociali, si nutre dell’identità nazionale e del senso dell’indipendenza. La ricetta della vittoria della sinistra latinoamericana è soprattutto questa. Indipendenza, sovranità, integrazione, solidarietà: una manna indigesta per lo stomaco dello Zio Sam.
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Latinoamerica
venerdì 10 ottobre 2014
Nove ottobre. Il "Che" è ancora vivo
Da contropiano.org
Il 9 ottobre del 1967 muore, dopo essere stato ferito in combattimento e catturato dai killer del dittatore René Barrientos Ortuño, in Bolivia, uno dei rivoluzionari più limpidi e carismatici del '900. Impossibile sintetizzare qui la sua azione e i suoi scritti, l'importanza del contributo che ha dato al rovesciamento dell'oppressione in tutto il mondo, e non solo nella sua America Latina.
Lasciamo perciò volentieri che Ernesto Guevara de la Serna, per tutti e sempre "Il Che", guerrigliero e maestro di umanità coraggiosa, sia ricordato, in questo anniversario, dalle parole di José Saramago, premio Nobel per la letteratura e comunista senza pelosi ripensamenti.
*****
“Non importa quale ritratto.
Uno qualsiasi, serio, sorridente, con l’arma in mano, con Fidel o senza Fidel, pronunciando un discorso alle Nazioni Unite, o morto, con il torso nudo e gli occhi semiaperti, come se dall’altro lato della vita volesse ancora accompagnare il futuro del mondo che ha dovuto lasciare, come se non si rassegnasse a ignorare per sempre i percorsi delle infinite creature che dovevano ancora nascere.
Su ognuna di queste immagini si potrebbe riflettere lungamente, in modo lirico o in modo drammatico, con l’oggettività prosaica dello storico o semplicemente come chi si accinge a parlare dell’amico che uno scopre che ha perso perché non ha avuto l’occasione di conoscerlo...
Al Portogallo infelice e imbavagliato di Salazar e di Marcelo Caetano arrivò un giorno una foto clandestina di Ernesto Che Guevara, quella più celebre di tutte, con intensi colori neri e rossi, che divenne l’immagine universale dei sogni rivoluzionari del mondo, promessa di vittorie fertile al punto da non degenerare mai in routine o in scetticismi, ma che anzi darebbe luogo a molti altri trionfi, quello del bene sul male, quello del giusto sull’iniquo e quello della libertà sulla necessità.
Incollato o fissato alle pareti con mezzi precari, questo ritratto è stato presente a dibattiti politici appassionati in terra portoghese, ha sottolineato argomenti, ha lenito scoraggiamenti, ha raccolto speranze.
È stato visto come quello di un Cristo che fosse sceso dalla croce per crocifiggere l’umanità, come un essere dotato di poteri assoluti che fu in grado di estrarre acqua da una pietra per estinguere tutta la sete, e di trasformare questa stessa acqua nel vino con cui si avrebbe brindato allo splendore della vita.
E tutto questo era sicuro perché il ritratto di Che Guevara fu, agli occhi di milioni di persone, il ritratto della dignità suprema dell’essere umano.
Però fu usato anche come ornamento incongruente in molte case della piccola e della media borghesia intellettuale portoghese, per i quali residenti le ideologie politiche di affermazione socialista non passavano da un mero capriccio congiunturale, forma presumibilmente rischiosa di occupare l’ozio mentale, frivolezza mondana che non poteva resistere al primo confronto con la realtà, quando i fatti esigevano il compimento delle parole.
E allora il ritratto di Che Guevara, il primo testimone di tanti infiammati annunci di impegno e di azione futura, il giudice della paura nascosta, della rinuncia vigliacca e del tradimento aperto, è stato rimosso dalle pareti, occultato, nella migliore delle ipotesi, in fondo ad un armadio, oppure radicalmente distrutto, come se uno avesse voluto fare in passato qualcosa di cui ora dovesse vergognarsi.
Una delle lezioni politiche più istruttive, nei tempi attuali, sarebbe sapere cosa pensano di loro stessi queste migliaia e migliaia di uomini e donne che in tutto il mondo hanno avuto un giorno il ritratto di Che Guevara al capezzale del letto, o di fronte al tavolo da lavoro, o nel salotto dove ricevevano gli amici, e che ora sorridono per aver creduto o aver fatto finta di credere.
Qualcuno dirà che la vita è cambiata, che Che Guevara, nel perdere la sua guerra, ci ha fatto perdere la nostra, e quindi era inutile mettersi a piangere come un bambino la cui tazza di latte è stata versata.
Altri avrebbero confessato che si lasciarono coinvolgere dalla moda del tempo, la stessa che ha fatto crescere la barba e i riccioli, come se la rivoluzione fosse una questione per i parrucchieri.
I più onesti avrebbero riconosciuto che il cuore fa loro male, che sentono un eterno e incessante movimento di rimpianto, come se la loro vita fosse stata sospesa e ora si domandassero ossessivamente dove pensano di andare senza ideali né speranze, senza un’idea del futuro che dia un qualche senso al presente.
Che Guevara, se si può dire, esisteva già prima di essere nato.
Che Guevara, se si può fare quest’affermazione, continua ad esistere dopo essere stato assassinato.
Perché Che Guevara è solo un altro nome di quello che c’è di più giusto e di più degno nello spirito umano.
Quello che spesso vive addormentato dentro di noi.
Quello che dobbiamo svegliare per conoscere e conoscerci, per aggregare il passo umile di ognuno al percorso di tutti.”
(Tratto dal sito Rebelión, Traduzione di Julio Monteiro Martins)
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Il 9 ottobre del 1967 muore, dopo essere stato ferito in combattimento e catturato dai killer del dittatore René Barrientos Ortuño, in Bolivia, uno dei rivoluzionari più limpidi e carismatici del '900. Impossibile sintetizzare qui la sua azione e i suoi scritti, l'importanza del contributo che ha dato al rovesciamento dell'oppressione in tutto il mondo, e non solo nella sua America Latina.
Lasciamo perciò volentieri che Ernesto Guevara de la Serna, per tutti e sempre "Il Che", guerrigliero e maestro di umanità coraggiosa, sia ricordato, in questo anniversario, dalle parole di José Saramago, premio Nobel per la letteratura e comunista senza pelosi ripensamenti.
*****
“Non importa quale ritratto.
Uno qualsiasi, serio, sorridente, con l’arma in mano, con Fidel o senza Fidel, pronunciando un discorso alle Nazioni Unite, o morto, con il torso nudo e gli occhi semiaperti, come se dall’altro lato della vita volesse ancora accompagnare il futuro del mondo che ha dovuto lasciare, come se non si rassegnasse a ignorare per sempre i percorsi delle infinite creature che dovevano ancora nascere.
Su ognuna di queste immagini si potrebbe riflettere lungamente, in modo lirico o in modo drammatico, con l’oggettività prosaica dello storico o semplicemente come chi si accinge a parlare dell’amico che uno scopre che ha perso perché non ha avuto l’occasione di conoscerlo...
Al Portogallo infelice e imbavagliato di Salazar e di Marcelo Caetano arrivò un giorno una foto clandestina di Ernesto Che Guevara, quella più celebre di tutte, con intensi colori neri e rossi, che divenne l’immagine universale dei sogni rivoluzionari del mondo, promessa di vittorie fertile al punto da non degenerare mai in routine o in scetticismi, ma che anzi darebbe luogo a molti altri trionfi, quello del bene sul male, quello del giusto sull’iniquo e quello della libertà sulla necessità.
Incollato o fissato alle pareti con mezzi precari, questo ritratto è stato presente a dibattiti politici appassionati in terra portoghese, ha sottolineato argomenti, ha lenito scoraggiamenti, ha raccolto speranze.
È stato visto come quello di un Cristo che fosse sceso dalla croce per crocifiggere l’umanità, come un essere dotato di poteri assoluti che fu in grado di estrarre acqua da una pietra per estinguere tutta la sete, e di trasformare questa stessa acqua nel vino con cui si avrebbe brindato allo splendore della vita.
E tutto questo era sicuro perché il ritratto di Che Guevara fu, agli occhi di milioni di persone, il ritratto della dignità suprema dell’essere umano.
Però fu usato anche come ornamento incongruente in molte case della piccola e della media borghesia intellettuale portoghese, per i quali residenti le ideologie politiche di affermazione socialista non passavano da un mero capriccio congiunturale, forma presumibilmente rischiosa di occupare l’ozio mentale, frivolezza mondana che non poteva resistere al primo confronto con la realtà, quando i fatti esigevano il compimento delle parole.
E allora il ritratto di Che Guevara, il primo testimone di tanti infiammati annunci di impegno e di azione futura, il giudice della paura nascosta, della rinuncia vigliacca e del tradimento aperto, è stato rimosso dalle pareti, occultato, nella migliore delle ipotesi, in fondo ad un armadio, oppure radicalmente distrutto, come se uno avesse voluto fare in passato qualcosa di cui ora dovesse vergognarsi.
Una delle lezioni politiche più istruttive, nei tempi attuali, sarebbe sapere cosa pensano di loro stessi queste migliaia e migliaia di uomini e donne che in tutto il mondo hanno avuto un giorno il ritratto di Che Guevara al capezzale del letto, o di fronte al tavolo da lavoro, o nel salotto dove ricevevano gli amici, e che ora sorridono per aver creduto o aver fatto finta di credere.
Qualcuno dirà che la vita è cambiata, che Che Guevara, nel perdere la sua guerra, ci ha fatto perdere la nostra, e quindi era inutile mettersi a piangere come un bambino la cui tazza di latte è stata versata.
Altri avrebbero confessato che si lasciarono coinvolgere dalla moda del tempo, la stessa che ha fatto crescere la barba e i riccioli, come se la rivoluzione fosse una questione per i parrucchieri.
I più onesti avrebbero riconosciuto che il cuore fa loro male, che sentono un eterno e incessante movimento di rimpianto, come se la loro vita fosse stata sospesa e ora si domandassero ossessivamente dove pensano di andare senza ideali né speranze, senza un’idea del futuro che dia un qualche senso al presente.
Che Guevara, se si può dire, esisteva già prima di essere nato.
Che Guevara, se si può fare quest’affermazione, continua ad esistere dopo essere stato assassinato.
Perché Che Guevara è solo un altro nome di quello che c’è di più giusto e di più degno nello spirito umano.
Quello che spesso vive addormentato dentro di noi.
Quello che dobbiamo svegliare per conoscere e conoscerci, per aggregare il passo umile di ognuno al percorso di tutti.”
(Tratto dal sito Rebelión, Traduzione di Julio Monteiro Martins)
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chi siamo
venerdì 12 settembre 2014
Trionferanno le idee giuste o trionferà il disastro.
FIDEL CASTRO: LA GRANDEZZA DI UN UOMO
A 88 anni di vita, il leader storico della Rivoluzione Cubana, Fidel Castro, rappresenta un paradigma di lotta per la pace e la verità nel mondo.
La sua militanza rivoluzionaria, l’autenticità e la coerenza lo hanno trasformato in uno dei più grandi leaders di tutti i tempi, perché la Rivoluzione cubana ha reso realtà un clima di giustizia che molti sognano.
Con la sua straordinaria lungimiranza ha guidato la lotta del popolo cubano per il consolidamento del processo rivoluzionario, lo sviluppo verso il socialismo e le trasformazioni economiche e sociali.
Doti personali, come l’impegno di ascoltare sempre la volontà popolare, lo hanno portato al posto d’onore che occupa come leader storico della Rivoluzione.
Anche se si è ritirato dall’attività pubblica nel 2006 per motivi di salute, mantiene una perfetta vitalità, come dimostrano le sue Riflessioni. NÈ LEGGENDA, NÈ MITO.
Nelle sue Riflessioni, Fidel trasmette fiducia nel futuro e la sua capacità di prevederlo. La sua vasta cultura e la sua esperienza come leader gli permettono un’ampia visione per prevedere gli avvenimenti e anticipare i fatti.
A 88 anni, continua la sua lotta perché un mondo migliore sia possibile, con precise critiche contro l’ordine economico globale vigente, contro lo sperpero delle risorse naturali e, più di recente, sul genocidio contro il popolo palestinese nella Striscia di Gaza.
Fidel carismatico, giusto e ottimista nell’avvenire, non è né una leggenda né un mito: è solo un uomo come pochi, la cui tenacia ha ispirato e incoraggia i cubani ad affrontare la politica ostile del Nord e a preservare quello che ha conquistato.
A 88 anni di vita, il leader storico della Rivoluzione Cubana, Fidel Castro, rappresenta un paradigma di lotta per la pace e la verità nel mondo.
La sua militanza rivoluzionaria, l’autenticità e la coerenza lo hanno trasformato in uno dei più grandi leaders di tutti i tempi, perché la Rivoluzione cubana ha reso realtà un clima di giustizia che molti sognano.
Con la sua straordinaria lungimiranza ha guidato la lotta del popolo cubano per il consolidamento del processo rivoluzionario, lo sviluppo verso il socialismo e le trasformazioni economiche e sociali.
Doti personali, come l’impegno di ascoltare sempre la volontà popolare, lo hanno portato al posto d’onore che occupa come leader storico della Rivoluzione.
Anche se si è ritirato dall’attività pubblica nel 2006 per motivi di salute, mantiene una perfetta vitalità, come dimostrano le sue Riflessioni. NÈ LEGGENDA, NÈ MITO.
Nelle sue Riflessioni, Fidel trasmette fiducia nel futuro e la sua capacità di prevederlo. La sua vasta cultura e la sua esperienza come leader gli permettono un’ampia visione per prevedere gli avvenimenti e anticipare i fatti.
A 88 anni, continua la sua lotta perché un mondo migliore sia possibile, con precise critiche contro l’ordine economico globale vigente, contro lo sperpero delle risorse naturali e, più di recente, sul genocidio contro il popolo palestinese nella Striscia di Gaza.
Fidel carismatico, giusto e ottimista nell’avvenire, non è né una leggenda né un mito: è solo un uomo come pochi, la cui tenacia ha ispirato e incoraggia i cubani ad affrontare la politica ostile del Nord e a preservare quello che ha conquistato.
Di seguito una sua lucida Riflessione sull'attuale situazione mondiale e sui possibili terribili sviluppi futuri.
“La società mondiale non conosce tregua negli ultimi anni, particolarmente da quando la Comunità Economica Europea, sotto la direzione ferrea ed incondizionata degli Stati Uniti, ha considerato che era arrivata l’ora di saldare i conti con quello che restava di due grandi nazioni che, ispirate nelle idee di Marx, avevano portato a termine la prodezza di mettere fine all’ordine coloniale ed imperialista imposto al mondo dall’Europa e dagli Stati Uniti.
Nell’antica Russia è esplosa una
rivoluzione che ha commosso il mondo.
Si aspettava che la prima gran
rivoluzione socialista si sarebbe sviluppata nei paesi più industrializzati
dell’Europa, come Inghilterra, Francia, Germania e l’Impero Austro-Ungarico.
Questa, tuttavia, ha avuto luogo in Russia il cui territorio si estendeva in
Asia, dal nord dell’Europa fino al Sud dell’Alaska che era anche stato
territorio zarista, venduto per alcuni dollari al paese che sarebbe
posteriormente il più interessato nell’attaccare e distruggere la rivoluzione
ed il paese che l’ha generata.
La maggiore prodezza del nuovo
Stato è stato creare un’Unione capace di raggruppare le sue risorse e
condividere la sua tecnologia con gran numero di nazioni deboli e meno
sviluppate, vittime inevitabili dello sfruttamento coloniale. Sarebbe o no
conveniente nel mondo attuale una vera società di nazioni che rispettasse
diritti, credenze, cultura, tecnologie e risorse di luoghi accessibili del
pianeta apprezzati da tanti esseri umani, che vorrebbero conoscerli? E non
sarebbe molto più giusto che tutte le persone che oggi, in frazioni di secondo,
si comunicano da un estremo ad un altro del pianeta, vedano negli altri un
amico od un fratello e non un nemico disposto a sterminarlo coi mezzi che è
stata capace di creare la conoscenza umana?
Per credere che gli esseri umani
potrebbero essere capaci di albergare tali obiettivi, penso che non esiste
nessun diritto per distruggere città, assassinare bambini, polverizzare
abitazioni, a seminare da tutte le parti terrore, fame e morte. In che angolo
del mondo potrebbero giustificarsi tali fatti? Se si ricorda che alla fine del
massacro dell’ultima contesa mondiale il mondo si illuse con la creazione delle
Nazioni Unite, è perché gran parte dell’umanità le ha immaginate con tali
prospettive, benché non fossero definiti perfettamente i suoi obiettivi. Un
inganno colossale è quello che si percepisce oggi quando sorgono problemi
che insinuano la possibile esplosione di una guerra con l’impiego di armi che
potrebbero porre fine all’esistenza umana.
Esistono individui negligenti,
apparentemente non pochi, che considerano un merito la loro disposizione a
morire, ma soprattutto ad ammazzare per difendere privilegi vergognosi.Questo è l'inizio del post.Molte persone si meravigliano
ascoltando le dichiarazioni di alcuni portavoci europei della NATO quando si
esprimono con lo stile ed il volto delle SS naziste. In occasioni perfino si
vestono con abiti oscuri in piena estate.
Noi abbiamo un avversario
abbastanza poderoso come lo è il nostro vicino più prossimo: gli Stati Uniti.
Gli abbiamo avvertiti che avremmo resistito al bloqueo, benché questo potesse
implicare un costo molto elevato per il nostro paese. Non c’è peggiore prezzo
che capitolare di fronte al nemico che ti aggredisce senza ragione né diritto.
Era il sentimento di un popolo piccolo ed isolato. Il resto dei governi di
questo emisfero, con rare eccezioni, si erano sommati al poderoso ed influente
impero. Non si trattava da parte nostra di un atteggiamento personale, era il
sentimento di una piccola nazione che era una proprietà dagli inizi del secolo
non solo politica, ma anche economica degli Stati Uniti. La Spagna c’aveva
ceduto a questo paese dopo avere sofferto quasi cinque secoli di colonialismo e
di un incalcolabile numero di morti e perdite materiali nella lotta per
l’indipendenza.
L’impero si è arrogato il diritto
di intervenire militarmente a Cuba in virtù di un perfido emendamento
costituzionale che ha imposto ad un Congresso impotente ed incapace di
resistere. A parte di essere i padroni di quasi tutto a Cuba: abbondanti terre,
le maggiori centrali di canna da zucchero, le miniere, le banche e perfino la
prerogativa di imprimere il nostro denaro, ci proibiva di produrre leguminose
sufficienti per alimentare la popolazione.
Quando l’URSS si è disintegrata ed
è anche sparito il Campo Socialista, abbiamo continuato a resistere, ed
insieme, lo Stato ed il popolo rivoluzionario, proseguiamo la nostra marcia
indipendente.
Non desidero, tuttavia,
drammatizzare questa storia modesta. Preferisco piuttosto sottolineare che la
politica dell’impero è tanto drammaticamente ridicola che non tarderà molto nel
passare nell’immondezzaio della storia. L’impero di Adolf Hitler, ispirato
nell’avidità, è passato alla storia senza più gloria che l’alito apportato ai
governi borghesi ed aggressivi della NATO che li converte nello zimbello
dell’Europa e del mondo, col suo euro, che come il dollaro, non tarderà a
trasformarsi in carta straccia, chiamata a dipendere dallo yuan ed anche dai
rubli, davanti alla vigorosa economia cinese strettamente unita all’enorme
potenziale economico e tecnico della Russia.
Qualcosa che si è trasformato in un
simbolo della politica imperiale è il cinismo.
Come si conosce, John McCain è
stato il candidato repubblicano alle elezioni del 2008. Il personaggio è uscito
alla luce pubblica quando nella sua condizione di pilota è stato abbattuto
mentre il suo aeroplano bombardava la popolosa città di Hanoi. Un missile
vietnamita l’ha raggiunto in pieno volo ed aereo e pilota sono caduti in un
lago ubicato nelle vicinanze dalla capitale, attiguo alla città.
Un antico soldato vietnamita già
ritirato che si guadagnava la vita lavorando nelle prossimità, vedendo cadere
l’aeroplano ed un pilota ferito che tentava di salvarsi si è mosso per soccorrerlo;
mentre il vecchio soldato prestava questo aiuto, un gruppo della popolazione di
Hanoi che soffriva gli attacchi dell’aviazione, correva per saldare i conti con
l’assassino. Lo stesso soldato ha persuaso il popolo a non farlo, perché era
già un prigioniero e la sua vita si doveva rispettare. Le stesse autorità
yankee si sono comunicate col Governo pregando che non si agisse contro questo
pilota.
A parte le norme del Governo
vietnamita di rispetto ai prigionieri, il pilota era figlio di un Ammiraglio
dell’Armata degli Stati Uniti che aveva svolto un ruolo riconosciuto nella
Seconda Guerra Mondiale e stava ancora occupando un importante incarico.
I vietnamiti avevano catturato un
pezzo grosso in questo bombardamento e come è logico, pensando alle conversazioni
inevitabili di pace che dovevano mettere fine alla guerra ingiusta che avevano
imposto, hanno sviluppato un’amicizia con lui che era molto felice di trarre
tutto il vantaggio possibile da questa avventura. Questo, naturalmente, non me
l’ha raccontato nessun vietnamita, né io non l’avrei mai domandato. L’ho letto
e si adatta completamente a determinati dettagli che ho conosciuto più tardi.
Ho anche letto che un giorno Mister McCain aveva scritto che essendo
prigioniero in Vietnam, mentre era torturato, ha ascoltato voci in spagnolo
consigliando i torturatori che cosa dovevano fare e come farlo. Erano voci di
cubani, secondo McCain. Cuba non è mai stata consulente in Vietnam. I suoi
militari conoscono perfettamente bene come fare la guerra.
Il Generale Giap è stato uno dei
capi più brillanti della nostra epoca che in Dien Bien Phu è stato capace di
ubicare i cannoni in selve intricate e ripide, fatto che i militari yankee ed
europei consideravano impossibile. Con questi cannoni sparavano da un punto tanto
prossimo che era impossibile neutralizzarli senza che le bombe nucleari
colpissero anche gli invasori. Gli altri passi pertinenti, tutti difficili e
complessi, sono stati usati per imporre alle forze circondate europee una resa
vergognosa.
La volpe di McCain ha tratto tutto
il vantaggio possibile dalle sconfitte militari degli invasori yankee ed
europei. Nixon non ha potuto persuadere il suo consigliere di Sicurezza
Nazionale Henry Kissinger, che accettasse l’idea suggerita dallo stesso
Presidente quando in momenti di rilassamento gli diceva perché non gli lanciamo
una di quelle bombe Henry? La vera bomba è arrivata quando gli uomini del
Presidente hanno tentato di spiare i loro avversari del partito opposto. Questo
sì che non si poteva tollerare!
Nonostante ciò, l’attuazione più
cinica del Sig. McCain è stata quella nel Vicino Oriente. Il senatore McCain è
l’alleato più incondizionato di Israele nei grovigli del Mossad, qualcosa che
né i peggiori avversari sarebbero stati capaci di immaginare. McCain ha
partecipato insieme a questo servizio segreto alla creazione dello Stato
Islamico che si è impadronito di una parte considerabile e vitale dell’Iraq,
come dicono, di un terzo del territorio della Siria. Tale Stato conta già con
entrate miliardarie, e minaccia Arabia Saudita ed altri Stati di questa
complessa regione che somministra la parte più importante del combustibile
mondiale.
Non sarebbe preferibile, lottare
per produrre più alimenti e prodotti industriali, costruire ospedali e scuole
per le migliaia di milioni di esseri umani che ne hanno bisogno disperatamente,
promuovere l’arte e la cultura, lottare contro malattie di massa che portano
alla morte oltre la metà dei malati, lavoratori della salute o tecnici che,
come sembra, potrebbero eliminare finalmente malattie come il cancro, l’ebola,
la malaria, la dengue, la chikungunya, il diabete ed altre che colpiscono le
funzioni vitali degli esseri umani?
Se oggi risulta possibile
prolungare la vita, la salute ed il tempo utile delle persone, se è perfettamente
possibile pianificare lo sviluppo della popolazione in virtù della produttività
crescente, la cultura e lo sviluppo dei valori umani, che aspettano a farlo?
Trionferanno le idee giuste o
trionferà il disastro.
Fidel Castro Ruz
31 agosto 2014.E questo è il resto.
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